Migranti, la vita ad alta tensione nel Cpr di via Corelli di Milano
Abbiamo visitato la struttura che finora ha ospitato circa 400 migranti, in gran parte tunisini. Gli operatori delle due cooperative che lo gestiscono accedono ai padiglioni solo se accompagnati dagli agenti della Polizia di Stato. Altrimenti parlano con i reclusi dalle finestre che danno sul cortile dell'ora d'aria
Dal cortiletto per l'ora d'aria si vede solo, in alto, la rete della recinzione e sullo sfondo il ponte della tangenziale. La vista intorno è coperta dai padiglioni e dal muro di cinta. Cerco di mettermi nei panni di un giovane tunisino che arriva qui su una camionetta della polizia: gli sembrerà di entrare in un carcere. Anche se ufficialmente il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) non è un carcere. Però ci sono inferiate ad ogni finestra, le porte di accesso ai corridoi e ai padiglioni sono presidiati da agenti della Polizia di Stato. E non ci si può muovere dal proprio alloggio. Nei Cpr vengono rinchiusi i migranti senza permesso di soggiorno (appena sbarcati o incappati in qualche controllo) e chi, scontata una pena in carcere, ha l'obbligo di lasciare l'Italia. Non hanno commesso reati, la loro è una detenzione amministrativa. Ma non per questo meno dura di quella riservata ai detenuti nelle carceri. La Prefettura di Milano ha autorizzato la visita di Redattore Sociale al Cpr di via Corelli, ponendo due condizioni: nessuna foto e nessun contatto con i reclusi. Una visita a maglie strette, che permette però di farsi un'idea di cosa sia la vita all'interno del Cpr di Milano.
Aperto nell'ottobre scorso, ci sono state almeno sei rivolte dei reclusi, che hanno devastato i padiglioni. Prima di Natale c'era un solo padiglione agibile, sugli otto della struttura. Nel giorno in cui effettuiamo la visita, il 29 gennaio, i padiglioni agibili sono tre, di cui uno (vuoto) riservato ad eventuali malati di Covid-19. “In un Cpr, al contrario del carcere, la buona condotta non è di per sé premiata. Qui si è a fine corsa. Si torna a casa. Qui i migranti prendono coscienza del loro fallimento migratorio. Anche se ti comporti bene, ritorni comunque nel tuo Paese. E quindi c'è una sorta di rivalsa distruggendo il luogo in cui tutto queste prende corpo”, spiega Andrea Montagnini, presidente della Cooperativa Luna scs, che insieme alla cooperativa sociale Versoprobo ha vinto il bando per la gestione del Cpr. Mi accompagna (insieme alla direttrice del Cpr, a un commissario della Polizia di Stato, a un funzionario della Prefettura e a un operatore sociale di Versoprobo) nella visita dei locali in cui c'è la prima accoglienza dei migranti, l'infermeria, gli uffici amministrativi e il corridoio che porta ai padiglioni. Tutto molto pulito e in ordine, come era facile immaginare. Il problema, però, è la costante tensione in cui vive chi è recluso. Gli operatori delle due cooperative accedono ai padiglioni solo se accompagnati dagli agenti della Polizia di Stato. Altrimenti parlano con i reclusi dalle finestre che danno sul cortile d'aria. “Noi cerchiamo di ascoltarli – racconta Urbano Abbonato, uno degli operatori sociali di Versoprobo-. E di dare loro delle risposte ai bisogni, nel limite del possibile”.
Il Cpr di via Corelli può ospitare, escluso il reparto Covid, fino a 112 persone. “Ma non abbiamo quasi mai superato i 50 -racconta la direttrice Beatrice Gatti-. In totale finora sono passate circa 400 persone, in maggioranza tunisini”. Quando esiste già un accordo di rimpatrio tra l'Italia e il Paese d'origine (come nel caso della Tunisia), il tempo di permanenza nel Cpr è di circa una settimana. Altrimenti può durare settimane.
Uno dei problemi principali nella gestione dei Cpr (non solo quello di Milano) è che i bandi di gara sono stati impostati con un budget ridotto al minimo. A Milano la base d'asta era di 28,80 euro al giorno per ogni migrante ospitato, oltre a 150 euro per il kit di primo ingresso (vestiario), una scheda telefonica di 5 euro e il pocket money pro capite giornaliero di 2,50 euro. Ha vinto chi ha fatto “l'offerta economicamente più vantaggiosa” rapportata alla qualità tecnica dell'intervento che garantisce. Ma c'erano già nel bando le premesse per un fallimento. Innanzitutto perché le cooperative vengono pagate solo in base al numero effettivo di persone ospitate. E poi perché il personale previsto dal capitolato è decisamente insufficiente. Quando ci sono meno di 50 reclusi, per esempio, deve essere garantita la presenza di un operatore per otto ore durante il giorno e uno di notte per quattro ore. L'assistente sociale è presente al massimo per 8 ore alla settimana, il mediatore linguistico per 24 ore alla settimana, il medico per 21 ore alla settimana. Nemmeno la direttrice è a tempo pieno: 24 ore alla settimana.
È evidente che con un personale così ridotto, non è possibile garantire un'assistenza costante e immediata ai reclusi. I reclusi hanno a che fare soprattutto con gli agenti della Polizia di Stato. “Il valore aggiunto che noi abbiamo portato nella nostra offerta durante la gara per il bando è la nostra esperienza nel campo dell'immigrazione, visto che da anni ci occupiamo di accoglienza -aggiunge Montagnini-. E abbiamo ritenuto che fosse nostro dovere occuparci dei migranti non solo quando arrivano, ma anche quando vengono espulsi, perché anche in questa fase hanno bisogno di assistenza”. Il nodo irrisolto, forse, è che dentro il Cpr di via Corelli non ci sono le condizioni per dare una vera assistenza.
Il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha visitato il Cpr di via Corelli il 18 dicembre scorso. E aveva riscontrato, tra le altre cose, che i reclusi hanno grandi difficoltà a comunicare con l'esterno, anche perché i cellulari vengono sequestrati all'ingresso. Dovrebbero esserci quindi dei telefoni fissi pubblici, uno ogni 15 posti letto, così da consentire ai reclusi di chiamare quando meglio credono, utilizzando le schede telefoniche. Anche a fine gennaio di questi telefoni non c'è ombra. In un rimpallo di responsabilità tra Prefettura e Telecom. “Verranno installati quanto prima” assicura la Prefettura. “Possono però telefonare con la loro sim utilizzando due cellulari che abbiamo messo a disposizione noi -assicura la direttrice-. Anche se dipende dalla disponibilità dell'operatore in quel momento. Se non è possibile subito, gliela facciamo fare appena è possibile”.
Nei Cpr non devono entrare minorenni. Eppure al Cpr di Milano è successo più volte, soprattutto perché i migranti quasi mai hanno un documento d'identità. “È capitato quando all'ingresso hanno dichiarato di essere maggiorenni e solo dopo qualche giorno hanno rivelato la loro età”, assicura la direttrice.
Altro nodo critico è il diritto di difesa. Ogni recluso ha diritto ad una assistenza legale, in particolare nell'udienza di fronte al Giudice di Pace che convalida il trattenimento nel Cpr. Quasi sempre si tratta di avvocati d'ufficio. Capita ben raramente che un recluso nomini un proprio legale di fiducia, perché dovrebbe già saperne il nome.
Il problema nei Cpr è che tutto si gioca in pochi giorni, in particolare proprio in quell'udienza di fronte al Giudice di pace. Non c'è poi tempo per altre udienze e non c'è un appello. Il recluso non ha quindi il tempo per capire cosa stia effettivamente succedendo e di chiedere aiuto.
Dario Paladini