Messico. La Chiesa in prima linea per i migranti: “Più che preoccupati, siamo occupati”

La Chiesa messicana affronta l’emergenza migranti al confine con gli Stati Uniti, tra espulsioni e militarizzazione. Mons. Lira denuncia un “dialogo asimmetrico” con Washington e rilancia l’impegno per accoglienza, diritti e integrazione. Aumentano famiglie in fuga, strutture al limite

Messico. La Chiesa in prima linea per i migranti: “Più che preoccupati, siamo occupati”

“Più che preoccupati, siamo occupati”. L’espressione del giovane padre Francisco Herrejón, referente per la mobilità umana della diocesi di Mexicali, che si trova nello Stato della Bassa California, alla frontiera con gli Stati Uniti, dove anche gli ambienti della cattedrale sono stati trasformati in luogo di accoglienza, rende bene lo stato d’animo che alberga nei tantissimi operatori, sacerdoti, religiose, missionari, laici, impegnati nell’accoglienza dei migranti alla frontiera. Il Sir ha raccolto le voci di alcuni di loro, alle prese con le prime settimane della presidenza Trump, che ha inviato l’esercito alla frontiera per sigillarla, avviando un piano senza precedenti di espulsioni di irregolari e interrompendo, inoltre, il programma “Parole”, che riguardava la protezione umanitaria di venezuelani, haitiani, cubani e nicaraguensi. E proprio mentre si diffonde la notizia dell’accordo tra Stati Uniti e Messico. Quest’ultimo eviterà i dazi, almeno per un mese, inviando a sua volta diecimila soldati ai confini.

Per certi aspetti, alla frontiera si vive la situazione abituale, con le case del migrante strapiene, a causa delle ondate di migranti che, in un modo o nell’altro, arrivano da sud, e delle ondate di ritorno che arrivano dagli Stati Uniti, costituite dai migranti “respinti” o “deportati”. Oggi, questa “risacca” è in crescita, seppure, al momento, in modo non esponenziale. Claudia Portela, missionaria uruguaiana che dirige il progetto salesiano di accoglienza a Tijuana, sempre in Bassa California, alla frontiera più trafficata del mondo, parla di trecento persone che, mediamente, arrivano dagli Stati Uniti.

Spesso si tratta di “vecchie conoscenze”, come la giovane donna accolta qualche settimana prima, entrata illegalmente negli Usa e di nuovo tornata nella struttura salesiana dopo l’espulsione.

Lira: “Dialogo asimmetrico”. Resta il fatto che le strutture di accoglienza messicane saranno, nei prossimi anni, costrette a “fare gli straordinari”. Ne è consapevole mons. Eugenio Lira Rugarcía, vescovo di Matamoros-Reynosa, responsabile della pastorale della mobilità umana della Conferenza episcopale messicana. Le due sedi della diocesi si trovano sempre alla frontiera con gli Usa, ma dal “lato” opposto rispetto a Tijuana. Quest’ultima si affaccia sul Pacifico, Matamoros è a pochi chilometri da quello che continueremo a chiamare Golfo del Messico e confina con il Texas. Alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, mons. Lira ha confermato l’intenzione di dare accoglienza ai migranti e ha rivolto un appello a tutta la Chiesa messicana: “Invitiamo tutte le arcidiocesi, le diocesi, le parrocchie, gli istituti di vita consacrata, i seminari, le case di formazione, le università e i collegi cattolici, le aggregazioni laicali e le comunità a unirsi a noi in questo sforzo”. Il vescovo spiega al Sir: “C’è un dato evidente di partenza. Tra Stati Uniti e Messico, ma possiamo metterci qualsiasi altro Paese latinoamericano, il dialogo non si svolge in condizioni di uguaglianza. C’è un potente che fa la voce grossa e gli altri non sono in condizione di rispondere con pari forza”. Il Messico, dunque, sarà costretto a farsi carico non solo dei connazionali che vengono respinti o deportati, ma anche dei migranti di altri Paesi, soprattutto venezuelani, haitiani, nicaraguensi e cubani. Impensabile, oggi, che questi possano essere “caricati” su un aereo e fatti tornare nei loro Paesi.

Continua mons. Lira: “Il passaggio, qui, è incessante. Incontriamo persone di tante nazionalità, anche africani o ucraini. Molti arrivano qui dopo una traversata lunga e pericolosa. Il sogno è sempre il solito: entrare in suolo statunitense. Noi la militarizzazione delle frontiere l’abbiamo già vista nel 2018 e 2019, ai tempi della prima presidenza Trump, ma oggi ci sono situazioni nuove. Ci sono moltissimi venezuelani, per esempio, che sono abbandonati”.

Mons. Lira si dice confortato per la bella collaborazione che si è venuta a creare con i vescovi statunitensi che si trovano al di là della frontiera. “La settimana scorsa ho predicato gli esercizi ai sacerdoti di Brownsville, a pochi chilometri da qui, in Texas. Il mio confratello, invece, è venuto a Matamoros. E ha raccontato che la gente è spaventata e terrorizzata, molti migranti temono che, a causa dei decreti di Trump, si separeranno delle famiglie. Inoltre, c’è un altro tema che spesso è poco considerato: quello delle rimesse. I soldi che i migranti che vivono negli Stati Uniti inviano in Messico, o nei Paesi centroamericani, sono molto importanti. Oltre alle relazioni con i vescovi statunitensi, stiamo costruendo reti sempre più strette con i vescovi centroamericani. Nei prossimi giorni ci incontreremo a Panama. Qui, stiamo facendo rete con le autorità statali, federali, municipali, e con le ong e associazioni che operano a favore dei migranti. Siamo anche in contatto con imprenditori disposti a dare lavoro ai migranti”.

Accompagnamento globale ai migranti. In questo scenario, “l’obiettivo primario è difendere i diritti umani, accompagnare le persone, dare loro assistenza a tutti i livelli, compresa quella legale, oltre che psicologica e medica”. È quello che si fa in tutte le case del migrante e nelle varie strutture presenti lungo il confine. Torniamo, idealmente, a Mexicali e a Tijuana. Racconta, da Mexicali, padre Herrejón: “Ci sentiamo obbligati a farci carico di loro. L’aumento degli arrivi e delle persone espulse ci ha spinto ad aprire gli ambienti della cattedrale, che è molto vicina al confine, oltre a mantenere le due strutture diocesane di accoglienza e una mensa. In pratica, tutta la nostra diocesi si è ristrutturata, avendo a cuore questa emergenza. Ci sono molti che chiedono di aiutare come volontari, ma tra la popolazione è anche forte il sospetto, la stigmatizzazione degli stranieri”.

L’accoglienza sta, poi, cambiando pelle: “Non esiste più il ‘migrante tipo’, giovane, maschio, da solo. Sempre di più arrivano famiglie, donne, mamme. Nei giorni scorsi abbiamo accolto una famiglia salvadoregna con un bimbo di tre mesi”.

A Tijuana, anche Claudia Portela è occupatissima nel coordinare le attività salesiane, che sono un vero e proprio fiore all’occhiello dell’accoglienza: “Ci guidano i quattro verbi proposti da Papa Francesco: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Si tratta di ridare dignità a queste persone, tanto più che in questo momento sono smarrite, non sanno cosa accadrà loro. Agli spazi di accoglienza si affiancano la consulenza legale e l’informazione, ma ai ragazzi cerchiamo di dare istruzione e formazione professionale”. Anche in questo caso, tutto questo è possibile grazie alla collaborazione con altre organizzazioni. Un’attività che, giorno dopo giorno, diventa sempre più complicata, poiché aumentano le tipologie giuridiche dei migranti, mentre le possibilità di chiedere e ottenere asilo sono sempre più basse. “Ma noi siamo pronti. Trump è già stato al potere e ci siamo preparati. L’importante è creare percorsi, dare delle risposte e degli orizzonti alle persone che accogliamo”, conclude la missionaria salesiana.

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Fonte: Sir