Messico-Usa. Da Nord a Sud il muro dell’esercito alle frontiere. L’obiettivo è non far passare più nessuno
Fare i “gendarmi” al posto degli illustri vicini statunitensi. O meglio, “fare il lavoro sporco”, in cambio di aiuti, al posto dei cugini “gringos”. Sembra essere questa, ormai, la nuova vocazione del Governo messicano, nella gestione dell’emergenza migranti. Una tendenza avviata durante l’Amministrazione Trump e consolidata in questi primi mesi di Amministrazione Biden. A costo di “scoppiare”. E di calpestare i diritti umani. In special modo di coloro che hanno già ricevuto lo status di rifugiati
Fare i “gendarmi” al posto degli illustri vicini statunitensi. O meglio, “fare il lavoro sporco”, in cambio di aiuti, al posto dei cugini “gringos”. Sembra essere questa, ormai, la nuova vocazione del Governo messicano, nella gestione dell’emergenza migranti. Una tendenza avviata durante l’Amministrazione Trump e consolidata in questi primi mesi di Amministrazione Biden. A costo di “scoppiare”. E di calpestare i diritti umani. In special modo di coloro che hanno già ricevuto lo status di rifugiati.
La conseguenza di questa scelta è visibile alla frontiera Sud e in particolare nella prima città dopo il confine, Tapachula, nel Chiapas. Qui, in mancanza di un “muro fisico”, l’Esercito e la Guardia nazionale hanno creato un muro non meno efficace.
L’obiettivo è quello di non far passare nessuno.
Soprattutto, di impedire che carovane organizzate proseguano il loro cammino verso gli Usa. Così, da settimane Tapachula è al collasso. Ai tradizionali flussi provenienti dall’America centrale, sono aumentati esponenzialmente gli arrivi di haitiani, che formano un “serpentone continentale” che parte dal Sudamerica, conosce una prima “strozzatura” tra Colombia e Panama, e, appunto, un brusco stop in terra messicana.
Ma la situazione non è migliore alla frontiera nord, dove ai migranti centroamericani e haitiani che comunque riescono ad arrivare alla spicciolata, si aggiungono i “deportati” dagli Usa e i “desplazados” interni, le popolazioni messicane in fuga dalla violenza.
A Tapachula non passa nessuno. È il segretario esecutivo per la Mobilità umana della Conferenza episcopale messicana (Cem), padre Julio López, a lanciare l’allarme attraverso il Sir:
“A Tapachula la situazione è difficile. L’Esercito non lascia passare neppure i rifugiati, che grazie al loro status hanno diritto a muoversi liberamente nel Paese”.
Proprio questa grave realtà è stata, tra le altre, oggetto di una lettera che la rete continentale Clamor, l’organismo ecclesiale latinoamericano che si occupa di migrazioni, ha scritto nei giorni scorsi al presidente messicano Manuel López Obrador. E il vescovo di Tapachula, mons. Jaime Calderón, ha denunciato quella che ha definito “una vera caccia all’uomo, condotta terrorizzando i migranti, tendendo loro imboscate e smantellandoli attraverso l’uso eccessivo della forza”.Padre López conferma che il metodo usato per fermare i migranti va spesso contro i diritti della persona, con un uso sproporzionato della forza.E punta l’attenzione anche su un ulteriore aspetto, di carattere legale. “La Comar (Commissione messicana di aiuto ai rifugiati) è al collasso. Chi richiede lo status di rifugiato attende anche sei o otto mesi, mentre il limite di legge è di 45 giorni. Le situazioni sono molto diversificate rispetto ai Paesi d’origine. Molti haitiani arrivano da Brasile o Cile, hanno la cittadinanza di quei Paesi, e così i minori. La Chiesa messicana sta attivando tutti i propri canali per arrivare a forme provvisorie di regolarizzazione, un po’ come accade in Colombia per i venezuelani”.
A Tapachula, poi, la diocesi ha coinvolto le parrocchie, in un’opera di accoglienza che non conosce soste.
A nord scenario complesso. Con il segretario esecutivo della Mobilità umana parliamo anche di quanto accade al nord, al confine con gli Usa: “Anche in questo caso lo scenario è molto complesso. I migranti, almeno, si possono muovere, ma la pressione del crimine organizzato è maggiore. Chi opera nell’accoglienza ai migranti, poi, si trova a gestire insieme quattro diverse tipologie di persone: coloro che transitano e puntano a superare la frontiera Usa; i deportati messicani dagli States; i deportati di altre nazionalità, i cosiddetti ‘articolo 42’; gli sfollati interni a causa di conflitti e violenza”.
Uno scenario confermato da chi vive “sul campo”, nella città di frontiera per eccellenza, Tijuana, come padre Patrick Murphy, scalabriniano, direttore della Casa del Migrante, che afferma:
“Il problema è andato crescendo negli ultimi mesi, ci sono duemila persone accampate che non possono andare da nessuna parte.
In effetti, oltre ai deportati e ai migranti centroamericani e haitiani, crescono i messicani che fuggono dalla violenza. E verso gli stranieri, gli haitiani, a partire dal Sud del Paese, si assiste a una reazione brutta, verso persone che cercano un futuro uscendo da una situazione difficile”.
Le consolidate strutture ecclesiali di accoglienza fanno quello che possono, “ma a causa del Covid possiamo accogliere un numero inferiore di persone”.
Sul banco degli imputati, secondo padre Murphy, è soprattutto il Governo messicano, dal quale “non riceviamo alcun aiuto, e ci si chiede come possa controllare il fenomeno migratorio chi non riesce a contenere la criminalità nelle città”.
Ancora una volta, “siamo in emergenza – afferma padre Agustín Novoa Leyva, direttore del Progetto salesiano Tijuana -. Il numero dei migranti qui in città continua a salire, tra gli haitiani e i tantissimi deportati dagli Usa, i richiedenti asilo che vengono espulsi con il cosiddetto ‘articolo 42’. Come organismi ecclesiali e congregazioni religiose facciamo il possibile. Per esempio, noi salesiani accoglievamo solo uomini, e abbiamo iniziato a dare ospitalità a famiglie, a donne con bambini, spesso molto piccoli”.
Per fortuna, “qui a Tijuana si stanno effettuando un maggior numero di vaccinazioni anti-Covid rispetto al centro e al sud del Paese, attualmente i contagi sono sotto controllo”. In ogni caso, avverte però padre Murphy, “i vaccini sono sempre pochi rispetto a quelli degli Stati Uniti, pochi chilometri più a nord.
Il dramma dei “deportati” con l’articolo 42. In ogni caso, in mezzo a questioni molto diversificate e complesse, a nord viene avvertito come prioritario il rapporto con gli Stati Uniti.Di fatto, il Messico, da Paese di transito, sta diventando Paese d’ingresso in entrambi i sensi:da Sud, come abbiamo visto, continuano ad arrivare carovane di centroamericani e haitiani, da nord vengono “rispediti al mittente” i richiedenti asilo che sono riusciti a entrare negli Usa. Il grimaldello è il già citato articolo 42, un provvedimento deciso dall’Amministrazione Trump all’inizio della pandemia, grazie al quale gli Stati Uniti possono espellere rapidamente i migranti per motivi di salute pubblica.
“I discorsi di Biden sono diversi da quelli di Trump – taglia corto padre Novoa – ma i comportamenti sono gli stessi. Anzi, con Biden le espulsioni sono pure aumentate, e del resto la cosa era accaduta anche durante la presidenza Obama”.
Secondo padre Julio López, in, realtà, “ciò accade perché sono aumentati gli ingressi, e di conseguenza aumentano anche le espulsioni. Tuttavia, l’articolo 42 rappresenta un grosso problema. Anche perché i non messicani che sono riportati nel nostro Paese sono in situazione di grande vulnerabilità, senza adeguato riconoscimento giuridico.
(*) giornalista de “La vita del popolo”