Medicina di genere, dalla legge all’Osservatorio: “Sì a un approccio multidisciplinare”
Promuovere una medicina specializzata, personalizzata, multidisciplinare coinvolgendo le istituzioni e l’associazionismo. Dalla legge 3 del 2018 al Piano per l’applicazione: cosa è stato fatto e cosa ancora resta da fare
“La medicina di genere non è la medicina delle donne, usciamo da questa convinzione errata. La medicina di genere è un approccio senza filtri, sono percorsi personalizzati. Qualcosa è stato fatto, tanto c’è ancora da fare”. Giuliano Barigazzi, presidente della Ctss metropolitana e assessore alla sanità del Comune di Bologna, introduce così il convegno “Uguali ma diverse, l’importanza di un approccio di genere per una cura adeguata per tutte e tutti”, organizzato dalla Città metropolitana. Un ragionamento in divenire che parte dalla definizione, risalente agli anni Duemila, che ne dà l’Organizzazione mondiale della sanità: “Si definisce medicina di genere lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona”. L’approccio adeguato, allora, non può essere dettato solo da fattori fisici, ma anche da fattori sociali, ambientali, relazionali. L’obiettivo della medicina di genere, allora, deve essere la riduzione delle disuguaglianze di salute intervenendo sui criteri ‘correggibili’. “Un approccio che diventi trasversale, polidisciplinare, dilagante”, sintetizza Barigazzi.
La storia della medicina di genere, come detto, è relativamente recente: è alla fine degli anni Ottanta che comincia a diffondersi la consapevolezza che le donne non ricevono cure adeguate alle proprie caratteristiche, con gravi diseguaglianze di trattamento; nel 2000 l’Oms inserisce la medicina di genere nel documento “Equity Act”, cercando di aumentare adeguatezza e appropriatezza delle cure secondo il genere del paziente, non solo secondo il sesso e, due anni dopo, crea il Dipartimento per il Genere e la salute della donna. Nel 2007 ha inserito tra i propri obiettivi quello di creare strategie nazionali per includere il genere nei programmi e nella ricerca, quello di sostenere e promuovere la ricerca e la formazione di genere in tutte le sedi istituzionali nazionali e internazionali e quello di aiutare lo sviluppo di nuovi farmaci e di nuove terapie mirate al genere.
Un invito, naturalmente, che deve realizzarsi a livello concreto: “L’Italia è uno dei primi Paesi che si è dotato di una legge per introdurre la medicina di genere nel servizio sanitario nazionale”, sottolinea Barigazzi. La legge in questione è la n. 3 dell’11 gennaio 2018 (la cosiddetta legge Lorenzin). Il riferimento è nell’art. 3 “Applicazione e diffusione della medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale”: “Il ministro della Salute [...] predispone, con proprio decreto, un piano volto alla diffusione della medicina di genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal ssn in modo omogeneo sul territorio nazionale”. Tra i principi alla base, la previsione di un approccio interdisciplinare tra le diverse aree mediche e le scienze umane che tenga conto delle differenze derivanti dal genere; la promozione della ricerca biomedica, farmacologica e psico-sociale basata sulle differenze di genere; il sostegno dell’insegnamento della medicina di genere; la promozione dell’informazione pubblica sulla salute e sulla gestione delle malattie, in un’ottica di differenza di genere.
Alla legge hanno fatto seguito alcuni documenti attuativi, in primis il Piano per l’applicazione della medicina di genere (maggio 2019) che specifica anche principi e strategie di governance su quattro aree d’intervento: percorsi clinici di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione; ricerca e innovazione; formazione e aggiornamento professionale; comunicazione e informazione. Il Piano annuncia anche la nascita dell’Osservatorio dedicato alla medicina di genere, istituito nel settembre 2020 per “assicurare l’avvio, il mantenimento nel tempo e il monitoraggio delle azioni previste dal Piano, aggiornando nel tempo gli obiettivi specifici in base ai risultati raggiunti”. Sono previsti, infatti, anche monitoraggi annuali che il ministro è chiamato a presentare in Parlamento: “L’Osservatorio è composto da esperti – spiega Sandra Zampa, ex Sottosegretaria alla Salute con delega alla medicina di genere – e lavora affinché tutte le istituzioni avviino programmi di applicazione”. A febbraio 2021 la nomina dei componenti, in aprile la prima riunione di insediamento. Sei i gruppi di lavoro: percorsi clinici, ricerca e innovazione, formazione universitaria, aggiornamento professionale, farmacologia di genere, disuguaglianze di salute relative al genere. “Sono state predisposte schede di monitoraggio: i dati raccolti contribuiranno a definire un quadro conoscitivo della situazione.
Gli stessi gruppi stanno iniziando a redigere le linee di indirizzo: preparazione di percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali, corsi di formazione per facilitare la comunicazione sul tema del genere in medicina, creazione di reti nazionali che condividano gli obiettivi”.
Nel frattempo, sono stati avviati progetti pilota in alcune università italiane: “Insomma, c’è ancora tanto da fare ma non partiamo da zero – riassume Paola Boldrini, vice presidente Commissione Sanità del Senato e prima firmataria della proposta di legge sulla medicina di genere –. I primi mattoncini ci sono, ora dobbiamo perseverare, a partire dall’impegno nella ricerca e nella formazione. Come? Coinvolgendo gli esperti, ma anche le istituzioni e il mondo dell’associazionismo”.
Ambra Notari