La sostenibilità possibile. Meglio accorgersi in tempo che i nostri stili di vita sono insostenibili, e vanno cambiati
Il concetto di sostenibilità è entrato nelle teste di un po’ tutti, almeno qui nel ricco Occidente dove si getta nella spazzatura quel che altri mangerebbero volentieri.
Non c’è prodotto, servizio, discorso, progetto che non sia sostenibile. È la parola chiave di questo scorcio di decennio e probabilmente lo sarà per i prossimi anni.
Sostenibilità, cioè quel che si fa non deve ledere irreparabilmente il nostro futuro. Le risorse della Terra vanno consumate, ma con giudizio; i prodotti devono essere il più possibile naturali, salubri, riciclabili, comunque non impattanti sull’equilibrio planetario; il nostro agire si deve conformare al giusto slogan “non abbiamo un pianeta B”, quindi ciò che facciamo deve tendere a lasciare questo mondo migliore di come l’abbiamo trovato.
Per carità, come ogni buona, giusta e sacrosanta cosa, ha il suo retro della medaglia: di un certo prodotto alimentare preferiremmo sapere che è anzitutto gradevole, più che sostenibile (o: anche sostenibile). Molte aziende raccontano la loro ormai indefessa lotta all’insostenibilità, anche se a volte si tratta più di belle parole che di fatti, poiché tutta questa buona lena non ha diminuito di un grammo la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, anzi. O ci si nasconde dietro qualche bell’esempio, tralasciando il fatto che la sostenibilità non è solo piantare due alberi per salvarsi la coscienza, ma anche – ma soprattutto – rispettare l’uomo, il lavoratore, la sua famiglia, la società in cui vive. Troppo facile rendere ecologiche le etichette di jeans cuciti in Bangladesh per mezzo euro l’ora, per dodici ore lavorative al giorno…
E non è un caso che colui che ha ribaltato il tavolo e ha posto sopra di esso prepotentemente il concetto di sostenibilità, l’abbia intesa a tutto tondo in quella profetica enciclica che è stata la Laudato si’.
Ma rimane assai positivo il fattore culturale: il concetto di sostenibilità è entrato nelle teste di un po’ tutti, almeno qui nel ricco Occidente dove si getta nella spazzatura quel che altri mangerebbero volentieri. Meglio accorgersi in tempo che i nostri stili di vita sono insostenibili, e vanno cambiati. Non ridotti, che impoverirsi non è un bell’orizzonte. Ma cambiati. Perché dal 2000 in poi abbiamo pensato che il “mercato” ci avrebbe resi tutti più felici e benestanti. E ora che l’acqua ci sta arrivando alla gola – in alcuni punti del globo in modo letterale –, vogliamo in molti (e sempre di più) una vita… sostenibile.
Anche i produttori di barre di alluminio hanno capito che non sono più felice sapendo che la mia maglietta ha inquinato il Turkmenistan ed è frutto del sudore di bambini vietnamiti. E faccio sempre più fatica a far finta di niente, a nascondermi dietro il peggiore nemico della sostenibilità: l’indifferenza.