La lezione della prevenzione mancata. Abbiamo scalcagnato il territorio senza alcun rispetto delle più elementari concezioni idrogeologiche
La lezione romagnola dovrà essere monito per tutti, e qui entrano in ballo i fondi del Pnrr.
L’alluvione di vaste zone pianeggianti della Romagna (con il corollario di centinaia di frane nelle valli appenniniche) è stata di proporzioni vaste e inusuali, ma soprattutto ha colpito uno dei “motori” dell’economia italiana nelle sue fondamenta. L’Emilia-Romagna è da qualche anno uno dei territori più dinamici e innovativi, si è agganciata al Nordest creando la vera locomotiva del nostro Pil. E lo è sia in quantità che in qualità: cioè nella capacità di generare nuova ricchezza – cosa fondamentale se poi si voglia distribuirla in servizi pubblici, pensioni, assistenza e quant’altro.
Da Rimini alle sponde del Po (ma Ferrara è già Emilia) c’è il cuore della produzione agricola italiana: enormi campagne perfettamente coltivate con moderne metodologie (meccanizzazione, irrigazione, varietà selezionate, teli antigrandine), che sfornano prodotti ad alto valore aggiunto. La frutta italiana – mele, pere, susine, albicocche, pesche, cachi, ciliegie… – arriva da qui, così come i succhi e i derivati; e poi ortaggi, allevamenti avicoli, trasformazione delle carni, conserve, latte e derivati… fino ai filari di Trebbiano e Sangiovese lavorati da colossali cooperative che hanno le spalle larghe per imporsi in diversi mercati internazionali.
Insomma esportazioni che portano qui valuta pregiata, così come fanno altre importanti aziende del territorio attive nei settori delle attrezzature sportive, nella moda o nella metalmeccanica. Per non parlare dell’industria regina: il turismo, laddove anche qui sono stati applicati da decenni quei metodi che hanno fatto la fortuna dell’ortofrutta (di cui Cesena è la capitale). Quindi simpatia e divertimento, ma anche pianificazione, innovazione continua, parchi tematici, spiagge pettinate, ospitalità organizzatissima. E milioni di turisti stranieri che ogni estate si fiondano nei lidi ravennati fino a Cattolica, portando con sé un fiume di ricchezza.
Ora c’è da fare la conta dei danni. Da quelli reputazionali – purtroppo sono arrivate disdette soprattutto dalla Germania per le prime due settimane di giugno in spiaggia e va fatta un’opera di informazione chiara – fino e soprattutto a quelli strutturali: interi ettari di frutteti lasciati per diversi giorni sott’acqua, laddove le radici marciscono; le ciliegie ormai pronte e distrutte dalla pioggia; i nuovi impianti quasi sicuramente compromessi. Va ristabilita la funzionalità delle fabbriche, sistemata la circolazione stradale, messi in sicurezza gli abitati.
Insomma l’orologio deve tornare a funzionare come prima, a cominciare dalla mole immensa di rifiuti prodotti dall’alluvione. Stato e assicurazioni saranno mobilitati per il risarcimento dei danni e per il riavvio della “macchina”. Il resto lo metterà la laboriosità romagnola, gente che non sta certo con le mani in mano.
La lezione romagnola dovrà essere monito per tutti, e qui entrano in ballo i fondi del Pnrr: abbiamo scalcagnato il territorio senza alcun rispetto delle più elementari concezioni idrogeologiche (fossi interrati per far spazio a coltivazioni e case; cementificazione che impedisce l’assorbimento della pioggia e produce “fiumi” tremendi; corsi d’acqua imbrigliati in angusti alvei o intubati). Qui come a Genova e in molta Liguria, nelle fiumare meridionali, in diverse valli appenniniche e alpine, nell’intasata Valpadana.
Paghiamo conti enormi, a cominciare dalle vite umane. Capiremo che prevenire è meglio che curare?