La crisi ucraina tra piano cinese e formula coreana: in cerca di una via d’uscita
Nell’opinione pubblica occidentale aumenta il disappunto per una guerra che, oltre a non dare i risultati sperati, procura danni e timori.
Nell’immediato dopoguerra il teologo e politologo realista Reinhold Niebuhr avvertiva gli Usa dei pericoli di rappresentare la contesa con l’Urss alla stregua di una guerra metafisica tra bene e male incarnati. Studioso di Agostino, rammentava l’impossibilità ontologica per una città terrena di immanentizzare la Città celeste. Ma nella moralizzazione manichea della politica estera rilevava anche il rischio di precludersi utili incoerenze, ovvero pragmatiche vie d’uscita dai vicoli ciechi.
Oggi i fatti gli danno ancora ragione. Nell’opinione pubblica occidentale aumenta il disappunto per una guerra che, oltre a non dare i risultati sperati, procura danni e timori. Negli Usa, chi ricorda le avventure in Vietnam e Afghanistan lamenta l’assenza di strategie sul come uscirne salvando la faccia. Dopo l’esternazione di Zelensky, secondo cui le famiglie statunitensi dovrebbero accettare di sacrificare i figli per salvare, con l’Ucraina, la democrazia globale, social e talk show d’Oltreoceano ospitano gli strali contro un leader che si teme fuori controllo. Persino Musk, i cui satelliti guidano i mirini ucroatlantici, temendo che la debacle ucraina comprometta il lustro di Starlink, moltiplica i tweet polemici contro i ministri di Kiev.
Diversi analisti osservano la rapidità della riconversione russa a un’economia di guerra che inverte il logoramento sulle spalle occidentali, accorgendosi finalmente che negli ultimi anni, oltre a Kiev, anche Mosca si è preparata alla collisione. Mentre gli apparati statunitensi si allarmano per lo svuotamento degli arsenali, il New Yorker, testata pur vicina ai dem, pubblica i conti sulla sostenibilità del munizionamento: in un anno di guerra si sono consumati 90 mila pezzi di artiglieria, a fronte dei 15 mila dell’ordinaria capacità produttiva Usa. E dalle sue colonne divulga l’ipotesi che circola nelle stanze del Pentagono e nell’establishment che denuncia ritardi sui progetti militari anticinesi, come il riarmo di Taiwan e il Quad (la Nato del Pacifico). Ipotesi neppure nuova, ricavata dal passato conformemente al modello decisionale del “garbage can”: si tratta della formula coreana adottata nel 1953, dopo 3 anni di guerra bloccata, per dividere Nord e Sud lungo il 38° parallelo frapponendo una fascia demilitarizzata. Analoga l’idea, previo armistizio, di separare il territorio ucraino governato da Kiev e quello ora controllato da Mosca mediante una striscia di non-contatto sotto garanzia internazionale. La provvisorietà eviterebbe trattati di riconoscimento reciproco che comprometterebbero il governo ucraino, il quale si è imposto per legge di non negoziare.
Soltanto un’ipotesi, non gradita dai falchi d’Oltreoceano che mirano alla vittoria totale. Insoddisfacente quanto una soluzione esposta all’alea della recrudescenza, peraltro collegata alla contropartita di un’integrazione nella Ue che sia rapida e unanimemente accettata. Ma resta un segnale molto significativo. Anche perché viene diffuso all’indomani del piano cinese sulla crisi ucraina, subito bocciato dalla Casa Bianca, con l’eco di von der Leyen sopraggiunta prima che Parigi e Berlino potessero esprimersi.
Ovvio che gli Usa non intendono agevolare Pechino nell’accreditarsi come moderatrice globale. Ma c’è altro. I 12 punti del piano, più che una mediazione, esprimono un metodo generale di condotta nei rapporti tra potenze, che sottende una visione multipolare antitetica all’unipolarismo perseguito dagli Usa. Il primo punto, dedicato al rispetto dell’integrità territoriale e alla non ingerenza nella sovranità altrui, per un verso stigmatizza l’invasione russa e per un altro rimanda a Taiwan come questione interna alla Cina. Ma allude anche all’interventismo Usa, già accusato di destabilizzare l’orbe e di rovesciare regimi aggirando le consegne del Consiglio di Sicurezza Onu. Il secondo punto richiama l’esigenza di impostare le agende securitarie senza minacciare quelle altrui: l’apparente recupero in spiritu degli Accordi di Helsinki 1975 incrocia l’implicita condanna agli allargamenti Nato e soprattutto alla militarizzazione dell’Indo-Pacifico. E vorrebbe preparare il consesso dell’Iniziativa di Sicurezza globale, che Pechino cerca di lanciare candidandosi a perno della reciprocità securitaria, per aggirare l’inefficacia delle meccaniche Onu e, prima ancora, per arginare il mandato sceriffale che gli Usa si riservano. Il decimo punto chiede la revoca delle sanzioni unilaterali: ovviamente quelle antirusse, ma inevitabile pensare alle misure di Biden contro il mercato tecnologico cinese. Il nono, sull’export di grano, e l’undicesimo, sulla salvaguardia delle filiere produttive, ricordano gli investimenti cinesi sui porti ucraini e le interruzioni subite con la guerra dai due corridoi della Nuova Via della Seta. L’ultimo, preoccupandosi della ricostruzione, suggerisce l’attenzione della Cina a non farsi estromettere dal lucroso Stato-cantiere a cui in Occidente ci si sta preparando: si vedano le opportunità di investimento discusse da 300 aziende di 22 Paesi al Rebuild Ukraine di Varsavia; le migliaia di imprese che già inviano progetti a Bruxelles; gli incontri del governo di Kiev con i vertici di BlackRock, J.P.Morgan e Goldman Sachs, tra i gruppi finanziari dell’Ukraine Reform Annual Conference che, dal 2017, indirizza Kiev sulle riforme secondo i canoni di privatizzazione, liberalizzazione e deregolamentazione.
Il piano sussume l’Ucraina nelle strategie globali di Pechino, specularmente a Washington. La bocciatura lo conferma. Tuttavia il rigetto si presta a essere cavalcato dalla Cina per rafforzare la propria immagine nel Sud mondiale: porzione maggioritaria di umanità refrattaria alla rappresentazione della guerra fornita da un Occidente che, con riduzionismo prospettico, confonde il proprio sguardo con la visuale di tutti. Tra formule e piani, di sicuro resta solo un’atmosfera infuocata dal mantra della “vittoria” recitato dalle parti coinvolte, facendo più rumore di chi si ostina a sillabare la parola “pace”.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense