La Pentecoste di tutti. Nella messa di domenica 23 maggio in Cattedrale, il vescovo Claudio celebra la Festa dei popoli
Nella messa di domenica 23 maggio in Cattedrale, il vescovo Claudio celebra la Festa dei popoli con i rappresentanti di tutte le tutte comunità etniche di religione cattolica che vivono nella Diocesi di Padova
Per un concorso di eventi, gli immigrati cattolici della Diocesi di Padova diventano i testimonial della Chiesa e del Sinodo diocesano. Dapprima la pandemia aveva cancellato la tradizionale celebrazione del 6 gennaio con il vescovo e i migranti; di seguito era stata individuata un’altra data significativa in una chiesa altrettanto significativa, e così si è concordato per la messa di Pentecoste, domenica 23 maggio, nella Cattedrale di Padova. Infine, il Sinodo diocesano, indetto giusto una settimana prima di questa messa “internazionale” che vede una rosa di provenienze e appartenenze molto ampia, per lingue ed espressioni di fede diverse: africani francofoni e anglofoni, cinesi, filippini, indiani, ispanoamericani, polacchi, romeni di rito latino e orientale, srilankesi, ucraini.
È in questo modo che le comunità etniche esprimono in modo chiaro l’universalità della Chiesa e la Chiesa si mostra con il volto bello della “convivialità delle differenze”, luogo in cui i vincoli di fraternità trascendono la nazionalità, la lingua, la cultura. È quanto esprime il documento conciliare Ad gentes, al punto 8 del primo capitolo: «Cristo e la Chiesa superano i particolarismi di razza e di nazionalità, sicché a nessuno e in nessun luogo possono essere estranei».
Con l’evento del Sinodo diocesano, gli immigrati che si incontrano nella messa di Pentecoste hanno il privilegio di esserne tra i primi testimonial, perché il Sinodo è il “cammino fatto insieme”, e gli immigrati rappresentano, più di ogni altro, il cammino dell’umanità, il cammino della fraternità, della dignità di ogni persona, il cammino della Chiesa.
Oltre a questi significati, la celebrazione con il vescovo attorniato dagli immigrati cattolici di Padova ne raccoglie anche altri, perché nella pagina biblica della Pentecoste si racconta che nella città simbolo di tutte le città, Gerusalemme, si erano radunate persone di diversa provenienza, lingua, tradizione. A un certo punto iniziano a capirsi, mantenendo le proprie identità e ricchezze culturali, perché sanno entrare nell’arte del dialogo e riconoscono che senza gli altri si è più poveri e ancor più poveri senza il riferimento ad un Dio che è Padre di tutti e che a tutti rivela la fraternità universale.
La forza dello Spirito Santo, dunque, aiuta a superare la rottura iniziata a Babele, dove la confusione delle menti e dei cuori aveva prodotto il frutto avariato della confusione dei rapporti umani, l’incapacità di capire e di capirsi, l’arteriosclerosi della chiusura. La Chiesa invece, che nella Pentecoste nasce come popolo di Dio, è un popolo che proviene da tanti popoli, dove le differenze sono ricchezza e non un ostacolo, sono un dono e non una calamità. San Paolo spiega e sottolinea questa verità quando scrive che «Non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, perché tutti siamo uno in Cristo Gesù» (Col 3). Questa è vera profezia, incarnata e visualizzata concretamente nella messa di Pentecoste con gli immigranti, assieme al vescovo e ai sacerdoti etnici che per questo compito sono venuti da lontano. In tale prospettiva, la celebrazione fatta in Cattedrale, la “chiesa matrice”, rappresenta per tutte le parrocchie della Diocesi l’incoraggiamento a essere segno di unità e di mediazione per la società, luoghi in cui il pluralismo non è visto come un male necessario, ma come un bene e una ricchezza. Le comunità cristiane, cattoliche in quanto aperte all’universale, sono in questo senso chiamate a essere sale, luce e lievito per la società civile nella quale sono immerse, specie quando ci sono modi di pensare, di giudicare, di sentire e di agire, che non sono in linea con il Vangelo.
«Cristo e la Chiesa superano i particolarismi di razza»
Dunque, la testimonianza che la Chiesa sa e saprà dare, in forza della sua natura universale, capace di comprendere e abbracciare tutti, porterà del bene anche ai contesti sociali caratterizzati irreversibilmente dalla compresenza di persone portatrici di culture diverse.
Una Chiesa capace di dire che i popoli possono incontrarsi, superando le contraddizioni e la fatica quotidiana di vivere la fraternità, è una profezia salutare per tutti. Nella strada iniziata dal Sinodo diocesano può essere significativo quanto indicato dalla Pentecoste: popoli di diversa lingua e cultura, lontani geograficamente ma ora vicini grazie anche alle migrazioni, sanno incontrarsi mettendo il meglio del loro patrimonio di valori e sanno fare festa, la festa della fraternità.