Kazakistan. Mons. Mumbiela Sierra (vescovo di Almaty): “Il nostro sogno di un Paese di pace, multietnico e di concordia”
Parla il vescovo di Almaty e presidente dei vescovi cattolici del Kazakistan dopo le giornate di ferro e fuoco che hanno lasciato in città ancora oggi segni di assedio e distruzione. “Il fatto che il Papa abbia parlato domenica scorsa del Kazakistan è un segno di comunione. Il suo appello al dialogo e alla fraternità è la strada per questo Paese”, dice mons. José Luis Mumbiela Sierra che aggiunge: “La pace è un dono di Dio ma anche frutto del nostro impegno e del nostro lavoro. Questa pace è anche il sogno di un Kazakistan multietnico, multireligioso, un Kazakistan di concordia. Stiamo sognando e ma stiamo anche costruendo perché questo sogno si realizzi”
“La vita si sta lentamente normalizzando. Si cominciano a vedere le persone per strada, hanno riaperto le prime caffetterie e qualcuno è anche tornato al lavoro. Anche il trasporto pubblico a poco a poco ha ripreso a funzionare. Così come Internet, almeno per 4 ore al giorno. Le scuole riapriranno il 17 gennaio mentre il 24 gennaio riapriranno le università”. Raggiunto telefonicamente dal Sir, è il vescovo di Almaty e presidente dei vescovo cattolici del Kazakistan, mons. José Luis Mumbiela Sierra a fare il “punto” della situazione oggi in città, dopo gli scontri violenti e armati della scorsa settimana. Risulta salito ad almeno 164 le persone morte, 103 delle quali solo ad Almaty. Lo riportano diversi media citando il ministero della Salute ma si tratta di un bilancio che non può essere verificato in modo indipendente. “Il presidente – ci dice il vescovo – ha fatto oggi una dichiarazione a tutta la popolazione ribadendo l’impegno del governo a normalizzare la situazione e a ricostruire quello che è stato distrutto. Molti negozi e centri commerciali hanno subito danni”. Il presidente, Kassym-Jomart Tokayev, ha parlato di un’operazione di ritiro graduale delle forze Csto, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva. Erano giunti lo scorso 5 gennaio da Russia, Armenia, Bielorussia, Kirghizistan e Tagikistan per aiutare a placare la situazione esplosiva del paese. Il loro ritiro non dovrebbe durare più di dieci giorni, a seconda di quanto promesso dal presidente Tokayev.
Avete avuto paura?
Le persone hanno avuto paura per la situazione di violenza che si è vista per le strade dove ci sono stati saccheggi, scontri senza controllo. I manifestanti non avevano però come obiettivo quello di colpire i luoghi religiosi. La nostra cattedrale di Almaty si trova proprio lungo la strada dove sono passati i manifestanti. Il parroco mi ha raccontato di aver visto persone armate di bastoni e pietre e di aver chiuso le porte della cattedrale per paura che venisse presa d’assalto. Ma la Chiesa non è stata colpita.
Tutto è cominciato come un movimento di protesta contro il rincaro del gas, è così?
Non riusciamo ad oggi ancora a capire se la protesta contro l’aumento del prezzo del gas era una scusa, un pretesto o se tutto è stata una casualità. Si ha l’impressione che questa gente che poi ha usato violenza, non era improvvisata ma preparata e organizzata perfettamente. Si parla di 20mila persone armate di cui 2/3mila venute da fuori.
Perché Almaty?
Almaty, con due milioni di abitanti, è la città più grande del Paese. Astana che conta un milione di persone, è la città politica, sede del governo e dell’esercito. Almaty invece è la capitale economica dove si concentrano tutte le attività economiche e finanziare del Paese. Da questo punto di vista, è senz’altro un punto nevralgico.
Il Kazakistan è un paese dove si contano oltre 100 nazionalità ed etnie diverse. Riescono a dialogare queste anime così diverse? O dietro gli scontri si nasconde anche questa difficotà?
Grazie a Dio la convivenza multietnica in Kazakistan, in questi 30 anni di indipendenza, è stata pacifica anche perché il governo ha favorito intelligentemente e molto bene questa armonia multietnica, favorendo incontri, mostrando che la pluralità è una ricchezza. E grazie a Dio, la comunità cattolica di questo Paese, benché sia molto piccola, è anch’essa al suo interno multietnica. Abbiamo tra noi, fedeli non solo di provenienze europee ma anche asiatiche.
Quale vocazione sentite di avere come Chiesa cattolica per questo Paese?
Essere una famiglia della pace, essere luce del mondo come Gesù, essere testimoni dei valori del Vangelo, in maniera non solamente spirituale ma totalmente umano, favorendo e promuovendo la giustizia, la solidarietà, la convivenza.
Sentiamo di non avere programmi speciali se non quello di essere buoni cristiani in questa terra.
Domenica scorsa il Papa, all’Angelus, ha parlato del Kazakistan, auspicando la ricerca del dialogo, della giustizia e del bene comune come via di armonia sociale. Cosa ha provato nel sentire queste parole?
In realtà domenica, non le potute sentire. Non c’era accesso ad Internet e non c’era la tv. Tra l’altro, non abbiamo potuto neanche comunicarlo alle persone, chiuse tutte dentro le loro casa e prive di canali di comunicazione. Abbiamo poi pubblicato le parole del Papa sui nostri canali. Il fatto che il Papa abbia parlato del Kazakistan è un segno di comunione.
Il suo appello al dialogo e alla fraternità è la strada per questo Paese.
Come vede oggi il futuro per il Kazakistan?
Il futuro passa per le parole di Gesù nel Vangelo, “beati di operatori di pace”. Non soltanto siamo chiamati a pregare per la pace – Dio mio fai di me uno strumento della pace – ma siamo chiamati anche ad essere operatori attivi di pace. La pace è un dono di Dio ma anche frutto del nostro impegno e del nostro lavoro. Questa pace è anche il sogno di un Kazakistan multietnico, multireligioso, un Kazakistan di pace e di concordia. Stiamo sognando e ma stiamo anche costruendo perché questo sogno si realizzi.
Ma il Papa verrà in Kazakistan?
Questo è l’altro nostro sogno. Abbiamo scritto una lettera al Santo Padre in cui l’abbiamo invitato a venire. Penso che dopo questa situazione critica appena vissuta, sarebbe bellissimo se il Santo Padre potesse visitare il Kazakistan e aiutare questo Paese a compiere con fiducia una nuova tappa della sua storia.