Iran e crisi del Golfo Persico. Bressan (Lumsa): “Escalation finale prima di un negoziato per un nuovo accordo sul nucleare”
Crisi del Golfo Persico: "Ciò che sta accadendo ad Hormuz è l’escalation abbastanza prevedibile dell’uscita americana, l’8 maggio 2018, dall’accordo sul nucleare iraniano” afferma Matteo Bressan, docente di relazioni internazionali alla Lumsa. La strategia della "massima pressione" sull'Iran da parte degli Usa punta a un nuovo trattato che non sarà facile accettare per il Paese islamico
Il momento di massima tensione lo si è raggiunto lo scorso 20 giugno quando il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, ha annullato un attacco militare contro l’Iran deciso come ritorsione per l’abbattimento di un drone statunitense. Una decisione diversa avrebbe segnato una grave escalation nel Golfo Persico dove le schermaglie tra Usa e Iran sono cominciate tre mesi fa. Il 12 maggio quattro petroliere vengono attaccate vicino allo stretto di Hormuz. Per gli Usa l’attacco è opera iraniana. Il 14 maggio droni dei ribelli yemeniti houthi, alleati dell’Iran e nemici dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti colpiscono stazioni di pompaggio di petrolio saudite. A giugno la tensione sale ancora con un nuovo attacco a due petroliere nel Golfo dell’Oman: questa volta Trump accusa direttamente i pasdaran, il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica dell’Iran (Irgc). Gli ultimi fatti risalgono a luglio: prima un tentativo iraniano di impedire il passaggio di una petroliera britannica nello stretto di Hormuz, seguito a breve distanza dal blocco da parte del Regno Unito, a Gibilterra, di una petroliera che presumibilmente trasportava petrolio iraniano nonostante l’embargo vigente. La risposta iraniana non si è fatta attendere: lo scorso 19 luglio i Pasdaran sequestrano una petroliera britannica che transitava nello stretto.
“Ciò che sta accadendo ad Hormuz è l’escalation abbastanza prevedibile dell’uscita americana, l’8 maggio 2018, dall’accordo sul nucleare iraniano” commenta al Sir Matteo Bressan, docente di relazioni internazionali alla Lumsa, analista e componente del Comitato Scientifico del Nato Defense College Foundation. L’accordo firmato nel luglio del 2015 tra l’Iran e i Paesi del cosiddetto 5+1 (Regno Unito, Francia, Usa, Russia, Cina e Germania), prevedeva da un lato la riduzione della capacità dell’Iran di arricchire l’uranio e dall’altro la rimozione delle sanzioni economiche internazionali imposte al Paese islamico. “L’Accordo, voluto fortemente da Barack Obama, è stato sempre criticato da Trump – ricorda il docente – deciso ad attuare una strategia della massima pressione sull’Iran, mettendo nel mirino i vertici del regime, soprattutto la guida Suprema e i pasdaran, considerati dagli Usa gruppo terrorista che, è bene ricordarlo, sin dalla fine della guerra contro l’Iraq, negli anni ’80, hanno ricoperto sempre più un ruolo economico di ricostruzione e di impresa nel Paese. Fortemente contrari all’Accordo sono stati anche Israele e Arabia Saudita. Per loro il Trattato riconosceva all’Iran un ruolo di attore regionale aprendogli di fatto la strada nei conflitti in Yemen e in Siria”.
Si profila la possibilità di un negoziato per un nuovo accordo?
La crisi di Hormuz potrebbe essere l’escalation finale prima di un nuovo negoziato. Trump ha sempre definito l’accordo siglato da Barack Obama come il peggiore possibile. Al momento di annunciare in diretta l’uscita dal Trattato, il presidente ha fatto capire di lasciare una porta aperta al dialogo. L’impressione è che voglia replicare con l’Iran lo schema adottato con la Corea del Nord, alternando minacce e insulti a possibilità di incontro e di dialogo. Fatti come quelli accaduti nelle scorse settimane nel Golfo Persico probabilmente qualche tempo fa avrebbero dato adito ad un possibile conflitto. Oggi credo che ci siano segnali per un nuovo negoziato che non sarà la fotocopia del 2015. Per negoziare un nuovo accordo sulla proliferazione nucleare con gli Stati Uniti, l’Iran dovrà ottemperare ad alcune richieste, ben 12, illustrate a fine maggio dal segretario di Stato statunitense, Mike Pompeo. Si tratta di diktat che chiedono lo stop al sostegno ai gruppi del Medio Oriente definiti “terroristi” (per es. Hezbollah, Hamas, Jihad Islamica, ndr.) e agli stessi Pasdaran e a tutta l’attività ibrida, politica e militare, da questi condotta all’estero. Sono punti che vanno oltre il controllo del programma nucleare e che vogliono contenere l’influenza iraniana nella regione.
Pompeo ha chiesto anche di porre fine alla proliferazione di missili balistici e interrompere il lancio o lo sviluppo di sistemi missilistici con capacità nucleare…
Il controllo del programma dei missili balistici iraniani è un altro tema di cui ora si torna a parlare e che non aveva trovato soluzione nell’accordo del 2015. Gli iraniani affermano di costruirli a scopo di difesa, ma come è stato fatto notare, non si programma la costruzione di missili balistici se sopra non si montano testate nucleari.
La sfida è quella di fare un accordo che vada ad inserire delle rassicurazioni per Israele e Arabia Saudita e al tempo stesso consenta all’Iran di rientrare nel circuito internazionale senza tenerlo isolato. Cosa che sarebbe un grande errore come lo sarebbe non poter controllare il programma nucleare. E lo sarebbe anche mandare delle flotte a scortare le petroliere con il rischio di provocare qualche incidente.
L’Europa sta provando a salvaguardare l’accordo 5+1, con quali esiti?
Per l’Europa salvaguardare l’accordo del 2015 è oggettivamente difficile. L’ordine internazionale è plasmato intorno all’egemonia americana. Difficile per l’Europa da sola provare a tenere in vita un accordo dove le transazioni finanziarie e le esportazioni di petrolio iraniano sono bloccate. Chi si adoperasse a farlo verrebbe sanzionato. Avrebbe potuto provare a farlo con Russia e Cina.
Crede che questa strategia della massima pressione possa dare i suoi frutti?
Non sarei così ottimista. Auspico che questa strategia possa riportare le parti intorno a un tavolo. Ma se non c’è un piano B potrebbe rivelarsi pericolosa. Non sarà facile per l’Iran accettare un nuovo accordo basato sui diktat di Mike Pompeo se non con una grande sofferenza, quella che sta vivendo da un anno a questa parte. Le sanzioni hanno un impatto sulla popolazione e sull’economia. Più si allunga la trattativa più diventa difficile.
L’Accordo sul nucleare è un punto di partenza per trattare qualcosa di più ampio: reinserire o meno l’Iran in una logica internazionale. Non so quanto sarebbe vincente la scelta di isolare l’Iran come Stato canaglia.