In viaggio verso la città perduta. Eraldo Affinati ci accompagna alla ricerca dei significati profondi dei luoghi reali o solo sognati

Un libro che ci rimanda a molto lontano. Alla città originaria e alla sua nostalgia, provando ancora una volta come la letteratura, quella vera, quella portatrice di senso profondo, esiste

“Chi sono io?

Chi sei tu

Come possiamo vivere insieme?”

In viaggio verso la città perduta. Eraldo Affinati ci accompagna alla ricerca dei significati profondi dei luoghi reali o solo sognati

La ricerca delle città visibili e invisibili, quelle reali o interiori -la differenza non è poi così grande- nel nuovo libro di Eraldo Affinati, “Le città del mondo”, (Gramma Einaudi, 305 pagine, 19 euro) termina a Gerusalemme, in una curva spazio-temporale in cui tutto torna. Se a quel “tutto” diamo il senso di un’avventura mai pienamente conoscibile, figuriamoci poi razionalizzabile, come in passato molti hanno creduto.

La Gerusalemme di questo libro che in apparenza rinuncia a Calvino e sfiora la fascinazione del “realista” Marco Polo, nel pieno delle celebrazioni dei settecento anni dalla sua scomparsa, (ma cita però l’immaginifico Borges oltre a molti altri, conosciuti o nascosti), è l’inizio di ogni cosa.

Più Affinati denuncia onestamente i suoi dubbi sul senso- ma nel contempo offre i nomi di quel senso, per esempio don Milani o monsignor Abbing, fondatore della Città dei Ragazzi a Roma- più il lettore si sente invitato a partecipare a quella ricerca, a condividere dubbi e certezze. E sono certezze che non si fondano sui dogmi o sulle raffinatezze verbali, sulla cui inutilità l’autore torna spesso, ma su reali costruzioni di bene soprattutto per i giovani, o per i miserabili senza nome soccorsi da madre Teresa e dai suoi continuatori.

Questo è uno dei significati del viaggio di Affinati alla ricerca della città perduta. Non è un caso che tutto il libro sia permeato da un sottile senso di riscoperta delle radici, dalla riappropriazione di quel termine di origine greca, nostalgia, che è il dolore della distanza e della mancanza, e la abissale spinta al ritorno.

I sogni che facciamo, sembra suggerirci l’autore, non sono esclusivamente patrimonio individuale, ma, come aveva intuito Jung (anche se altri prima di lui ne avevano sospettato l’esistenza) tesoro collettivo che ci spinge ad una ricerca di nuove e vecchie città, di foreste primigenie e di deserti: non a caso qui viene ricordato Thomas Edward Lawrence, più conosciuto come Lawrence d’Arabia, insieme ad altri apparenti avventurieri che forse senza neanche saperlo tentavano la ricongiunzione con le origini, talvolta attraverso l’autodistruzione, come accade nel qui citato Malcom Lowry di “Sotto il vulcano”, uno dei capolavori del Novecento. Anche se pochi testi scolastici lo ricordano.

Un libro, questo di Affinati, che ci rimanda a molto lontano. Alla città originaria e alla sua nostalgia, provando ancora una volta come la letteratura, quella vera, quella portatrice di senso profondo, esiste. A patto di saperla cercare, e l’autore lo fa: quella ricerca di radici d’altronde è rivelata addirittura nella canzone, quando Luis Bacalov scrisse una “Canzona” in cui la ricerca di qualcosa che è già stato nostro affondava consapevolmente le radici in Eliot e più lontano, nell’Ecclesiaste di “per ogni cosa c’è il suo momento”.

Potenza della scrittura, ancora oggi, quando tutto sembra dettato dalle mode e dall’intelligenza artificiale. Un libro, questo di Affinati, che ci accompagna nelle nostre strade, e anche altrove. Non solo nelle città nominate o immaginate, ma in una memoria in cui divino e quotidiano si incontrano e mandano inquieti bagliori di senso.

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Fonte: Sir