Il racconto della follia bellica. Quando la letteratura ci parla delle vittime innocenti delle guerre
I libri dovrebbero insegnarci qualcosa, anche se la nuda e cruda cronaca ce ne racconta altre, di storie
Fotografie con bambine che camminano, tenendosi per mano, tra le rovine di Rafah. Attesa di un attacco imminente, sogni di giochi all’aria aperta, come tutti i loro coetanei, il ritorno nei rifugi o nelle case ancora in piedi, pronti a fuggire di nuovo. Treni sospettati di portare armi bombardati dai Russi nel Donetsk, altri bombardamenti, che hanno colpito ancora una volta ragazzi, mamme, famiglie inermi e innocenti. Le vittime di queste guerre sono anche e soprattutto loro: bambini, alcuni estratti vivi da quelle mamme che non ce l’hanno fatta e poi anch’essi morti perché gli ospedali non hanno più gli strumenti che potrebbero salvarli.
I libri dovrebbero insegnarci qualcosa, anche se la nuda e cruda cronaca ce ne racconta altre, di storie. Eppure in quella Storia raccontata negli anni Settanta del Novecento da Elsa Morante l’attesa era narrata per quello che rappresentava per la povera gente, l’angoscia, il terrore di perdere figli e madri: “sempre più spesso, col passare dei mesi, suonavano gli allarmi notturni delle sirene: seguiti, per solito, di lì a non molto, da fragori di apparecchi attraverso il cielo”.
Eppure gli orrori sono stati narrati o dalle opere o dalle vite: scrittori come Scipio Slataper, morto sul Podgora a 27 anni, o Renato Serra, che poco prima di sacrificare la sua vita al fronte aveva scritto profeticamente che quel massacro non avrebbe cambiato nulla. Un altro grande poeta, Clemente Rebora, dopo aver assistito alle morti atroci di compagni di trincea e dopo una lunga crisi decise di lasciar tutto per entrare in convento. “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque aveva narrato il massacro senza senso di giovani, e per questo messo nell’indice dei libri proibiti e bruciato nelle piazze dai nazisti. E il ricordo della guerra è parte anche di un vero e proprio manifesto poetico del Novecento: la “Terra desolata” di Eliot.
Anche chi aveva aderito spontaneamente alla guerra, come Ungaretti, ne “Il porto sepolto” dovette riconoscerne l’orrore dopo la vista di un compagno “massacrato” a due passi da lui. Uno dei grandi pacifisti e rappresentante di punta del mondo cattolico nel Novecento, Igino Giordani, andò al fronte per obbedienza e fu gravemente ferito: restò sempre uno degli alfieri della pace anche durante il fascismo. La guerra, scrisse, era “sopra tutto peccato”, oltre che “operazione fatta contro il popolo”.
Quando la guerra divenne massacro indiscriminato a causa delle armi micidiali che il progresso scientifico aveva contribuito a creare, ci furono altre testimonianze, come quella di Mario Rigoni Stern che nella campagna di Russia riuscì a individuare quella radice di umanità che persisteva nonostante tutto. Quel senso di spasmodica attesa, che oggi le popolazioni di Gaza e dell’Ucraina vivono giorno e notte, era già stato anticipato nel poema di Vera Michailovna Inber, “Il meridiano di Pulkovo”, che descrive l’assedio di Leningrado da parte dei tedeschi.
L’ attesa dell’inevitabile non emerge solo dentro la guerra, ma nelle dichiarazioni aggressive, negli spostamenti di truppe ai confini che sembrano preludere a nuovi orrori. Accade in “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, finito di scrivere nel 1939, in cui emerge un senso di ansiosa aspettativa di qualcosa che sta per accadere. Come anche in una canzone, una autentica poesia (e non a caso il suo autore è Nobel per la letteratura), di Bob Dylan, “All along the watchtower”, che descrive la apocalittica attesa di due cavalieri che si stanno avvicinando in una tempesta di vento. Una tempesta che per la popolazione civile del Giappone significò il massacro delle due bombe atomiche: ce ne ha lasciato testimonianza la poetessa Shinoe Shoda, anche lei, con la sua famiglia, vittima innocente delle conseguenze delle radiazioni.