Il museo delle bici, in casa

«Metta pure la bici in casa», afferma gentile la signora Dorina, e all’improvviso ci si trova inghiottiti in una vertigine di bellezza, storia e fatica.

Il museo delle bici, in casa

Non capita spesso di parcheggiare il proprio umile velocipede, comprato in saldo in un centro commerciale, a fianco di una bicicletta appartenuta a Marco Pantani: una stupenda Dosi crono del 1991, rosso Ferrari. Ruota a razze da 26 pollici davanti, dietro una lenticolare da 28 e il manubrio a “corna di bue” per penetrare meglio nell’aria: anche grazie a essa il futuro Pirata riuscì a classificarsi secondo al Giro d’Italia dilettanti, inizio di una carriera fulgida quanto tragica. Poi entri nel soggiorno e trovi, appoggiata a un muro come se nulla fosse, la bici con cui Gino Bartali arrivò secondo al Tour del 1949, inchinandosi alla definitiva consacrazione di Fausto Coppi. È lì tutta gialla, la madonnina dorata incisa sul manubrio: vera e propria firma su tutte le bici appartenute al ciclista toscano, terziario carmelitano e “Giusto fra le nazioni”, che durante la Resistenza nel telaio trasportava i documenti che salvarono la vita a centinaia di ebrei. Entrare nella piccola casa vicino alla rotonda tra l’Arcella, via Plebiscito e Pontevigodarzere è davvero un tuffo nella storia del grande ciclismo, con centinaia di cimeli tra magliette, ritagli di giornali, trofei, quadri, altri oggetti artistici e oltre 60 biciclette originali appartenute a campioni come Gimondi, Argentin, Moser, Martinello, Camenzind… poi ci sono loro, le Bianchi di Fausto Coppi: esposte in cucina sul ripiano vicino ai fornelli, in modo da poter essere guardate e coccolate in ogni momento, anche mentre si prende il caffè. Ognuna con una propria storia da raccontare: in sella a quella con il numero 36 l’Airone fece una leggendaria tappa Cuneo-Pinerolo, nella quale inflisse oltre 10 minuti a Bartali, mentre con la 23 nel 1954 un pauroso incidente con una ruota persa da un camion. È proprio quest’ultima ad aver dato inizio, una quindicina d’anni fa, all’incredibile collezione di Gianfranco e Dorina Trevisan: «La passione c’era già, all’epoca frequentavamo i raduni con biciclette d’epoca – ricorda lui – Venni così a sapere di questo signore che era stato compagno di squadra di Coppi e che, nella sua casa vicino a Pisa, custodiva la sua bicicletta. Per mesi andai tutte le settimane a pregarlo di vendermela: alla fine accettò e ricordo che piangevamo tutti e due: io per la gioia e lui per la tristezza di separarsene». Da sempre il ciclismo è una ragione di vita per Gianfranco Trevisan, nato nel 1948 all’Arcella, a due passi da Sant’Antonino, ma trasferitosi a pochi mesi con la famiglia in Argentina, vicino a Buenos Aires: «Di studiare non avevo tanta voglia, così i miei mi mandarono come garzone presso un meccanico di biciclette, che aveva anche una sua squadra corse». È qui che il giovane mette in luce le sue doti, soprattutto come velocista: «Mi buttavo nelle volate senza aver paura di niente – racconta con gli occhi azzurrissimi e il dolce accento delle pampas – Fin da piccolo del resto andavo con gli amici a fare i rodei con i cavalli selvaggi: che paura potevano farmi le bici?». All’età di sedici anni però, in seguito alla separazione dei genitori, Gianfranco torna a Padova con la madre, ed è qui che entra a far parte della Società ciclisti padovani, tutt’ora una delle più antiche e prestigiose al mondo: «In Argentina avevo vinto 29 gare su 30 disputate, e solo perché una l’aveva lasciata a un compagno. Qui in Italia però non ero ancora niente; ricordo quando il direttore sportivo Severino Rigoni, che era stato vicecampione olimpico e aveva corso con Coppi, mi diede la prima maglietta: aveva i buchi, quella nuova avrei dovuto guadagnarmela. Vinsi subito la prima gara, a Udine, e mi regalò due tubolari: lo ricorderò finché vivo», ricorda con la voce quasi rotta dalla commozione. Ed è proprio a suon di risultati che il giovane si mette in luce ed entra anche in nazionale, fino ad arrivare a un passo dal professionismo: fu lo stesso Gino Bartali, racconta, a chiedergli di entrare nella squadra di cui era direttore tecnico. Un giorno però, durante una fuga, l’urto con l’asta di un passaggio a livello spegne per sempre i suoi sogni di gloria: non basteranno tre operazioni alla schiena a permettergli di tornare stabilmente in sella.

Da lì inizia la terza vita di Gianfranco: l’amore lo porta a Imola, dove ha due figli ed esercita prima la professione di commerciante e poi quella di antiquario. La passionaccia però non lo abbandona: appena vede una vecchia bici non resiste alla tentazione di comprarla e di restaurarla; più tardi inizia a frequentare L’Eroica, la gara internazionale con equipaggiamenti storici che si svolge ogni anno tra le colline del Chianti. Fino appunto, passati i sessant’anni, a mettersi a collezionare le bici appartenute ai grandi campioni del passato. Complice anche la nuova compagna, che abbraccia completamente gli interessi del marito: «All’inizio, quando venivano a trovarci, mi vergognavo un po’ con tutte queste bici, dalla cucina alla camera da letto – spiega Dorina – Adesso sono io a trasportarle e a caricarle quando andiamo a fare una mostra o un’esposizione». L’ultima si è tenuta al Centro culturale Altinate San Gaetano, in occasione della tappa che ha portato il Giro d’Italia a Padova, e ha registrato un ottimo successo di pubblico, con i visitatori che si aggiravano quasi increduli tra gli oggetti appartenuti a personaggi che hanno fatto la storia del ciclismo. E per il futuro? Un tempo la coppia pensava di costituire un museo, magari presso lo storico velodromo Monti, in modo da salvaguardare la collezione e renderla accessibile a un pubblico più vasto: finora però nel confronto con le autorità locali non si è ancora arrivati a nulla di concreto, anche se proprio la passata mostra al San Gaetano potrebbe essere un inizio promettente. «Mi hanno offerto di portare tutto a Treviso o in altre parti: io però vorrei far rimanere le mie biciclette a Padova, anche se non so se sarà possibile». Intanto una delle bici dei Trevisan, la terza di loro proprietà appartenuta a Coppi – caso unico al mondo – in questo momento è a Museo Bartali di Firenze, dove a fine giugno saluterà l’inizio del Tour de France 2024, il primo a partire dall’Italia. «Un tempo le bici erano costruite d’acciaio, e dopo un secolo le abbiamo ancora – conclude Gianfranco – Quelle di carbonio saranno pure leggerissime ma dopo quindici anni devi buttarle». Come molte corse moderne, in cui strategie e computer sembrano quasi più importanti della personalità degli atleti: «Amo ancora Pantani, che a un certo punto si toglieva la bandana e partiva all’attacco, infischiandosene degli ordini di scuderia. Un tipo di ciclismo che forse, purtroppo, è morto con lui».

Sc Padovani

Nata nel 1909, come il Giro d’Italia, presso il caffè Pozzo Dipinto in via Cassa di Risparmio (oggi via Cesare Battisti), dopo 115 anni la Società ciclisti padovani è ancora una delle più prestigiose del Paese. Nel 1915 propugna la costruzione dello storico velodromo Monti vicino a Prato della Valle, che ospiterà diverse edizioni dei campionati italiani su pista, per poi arrivare ai gloriosi anni in cui Sergio Bianchetto e Giuseppe Beghetto si laureano campioni olimpici a Roma nel 1960 nella categoria tandem. Attiva tutt’oggi nei settori esordienti, allievi e juniores, la Sc Padovani vanta il palmarès più nutrito di tutto lo sport italiano, con 11 medaglie olimpiche, 12 Campionati del mondo e 55 titoli italiani.

Si può prendere appuntamento e visitare la casa

Gianfranco e Dorina amano condividere con tutti gli appassionati quello che così faticosamente hanno messo insieme: «Per venire a vedere basta scriverci al 338-5773647, oppure contattarci tramite la pagina Facebook “Collezione Bici Campionissimi Trevisan”: accogliamo tutti e offriamo anche da mangiare», scherza Dorina.

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