Il mondo-piattaforme e i nostri diritti appiattiti
Il web è cambiato. Dalla rete egualitaria dell’utopia dell’“uno vale uno” siamo passati all’oligocrazia delle piattaforme.
Google, Amazon, Facebook, ma anche Spotify, Uber, E-Bay, Deliveroo e Just Eat. Colossi sempre più grandi e sempre più potenti dentro ai quali avvengono la quasi totalità degli incontri tra domanda e offerta, utenti e aziende, lettori e testate d’informazione. Platform society. Valori pubblici e società connessa, libro del 2019 di ricercatori olandesi ancora attualissimo, spiega come in diversi campi le piattaforme abbiano riscritto le regole del gioco grazie al potere dei dati: recensioni, stelline, geolocalizzazione, archivi di prodotti e motori di ricerca. Questi dati, poi, vengono mercificati e trasformati in valore aggiunto attraverso una selezione fatta su misura di ciascun utente, che troverà le notizie per lui più interessanti o i consigli sui prodotti da acquistare, sulla base delle sue ultime ricerche su Google. Le piattaforme hanno prima decentrato i processi tagliando fuori il middle man: mediatori e intermediari, giornali di annunci, catene di distribuzione, compagnie di taxi, agenzie immobiliari. Poi, però, divenute monopoli, hanno provveduto a un ri-accentramento, reclamando su sé stesse maggiori poteri, margini più alti e logiche vessatorie. Sarebbe bello che la politica, alla vigilia delle elezioni europee, parlasse di questo e ragionasse su come tutelare i diritti degli utenti. Non dovrebbe essere un tabù, mantenendo il rispetto della libertà d’impresa e della proprietà privata, ipotizzare in certi casi la rottura dei monopoli, e in altri casi, addirittura, acquisire nel pubblico alcune piattaforme come “beni comuni” mondiali. L’economia, il sapere, l’informazione non possono essere schiavi di posizioni dominanti e dei capricci dei Musk di turno.