Il finanziamento pubblico dei partiti
Come si sostiene economicamente la politica? Come si possono effettivamente garantire gli strumenti necessari per la partecipazione attiva di cittadini e di gruppi?
Chi ha il coraggio di parlare di finanziamento pubblico dei partiti? Ogni tanto qualche ardimentoso ci prova, ma con scarsissimi risultati e incassando dosi massicce di critiche (per usare un eufemismo) sui social e non solo. Almeno dai tempi di Tangentopoli l’argomento è diventato un tabù tra i più coriacei e condivisi nell’opinione pubblica. Forse anche per questo le forze politiche – più o meno tutte coinvolte – avevano pensato di quasi raddoppiare i fondi destinati ai partiti ricorrendo a uno strumento estremamente defilato: un emendamento al decreto fiscale di cui è in corso la conversione in legge in Parlamento. L’operazione si è fermata e ha preso un’altra piega perché dal Quirinale hanno fatto sapere che, nei termini in cui si stava profilando, l’emendamento sarebbe andato incontro a una bocciatura. E’ uno di quegli interventi informali che nel gergo vengono definiti di moral suasion e che appartengono al campo della leale collaborazione tra le istituzioni: prima di arrivare a un evento traumatico come la non promulgazione di una legge da parte del Capo dello Stato, ci si parla e ci si confronta. Poi ognuno si comporta secondo le proprie competenze costituzionali.
Tra i rilievi giuridici del Colle ce n’è uno particolarmente significativo. In sostanza si sostiene che una modifica della portata di cui si tratta non può essere inserita surrettiziamente in un provvedimento eterogeneo per materia e che, in quanto decreto, deve rispettare i requisiti di necessità e urgenza. La conseguenza è che per cambiare le regole occorrerebbe una legge apposita e quindi bisognerebbe metterci la faccia. E qui torniamo alla domanda di partenza che, a ben vedere, chiama in causa una questione d’importanza fondamentale per una democrazia. Come si sostiene economicamente la politica? Come si possono effettivamente garantire gli strumenti necessari per la partecipazione attiva di cittadini e di gruppi? Detto in altre parole: come si può evitare che la politica divenga un affare riservato ai miliardari, in prima persona – come le recenti vicende d’Oltreoceano mostrano in modo persino sprezzante – o come soggetti finanziatori?
Diciamo subito che il problema non è principalmente tecnico. Le soluzioni pratiche si trovano, attingendo all’esperienza di altri Paesi o ripensando quanto è stato fatto e si fa in casa nostra. E non è principalmente neanche un problema di bilancio: non sono in ballo somme ingenti, anche se far quadrare i conti dello Stato è sempre un’impresa ardua. Il nodo è nel rapporto tra i cittadini, i partiti e la politica, come dimostra anche il fenomeno contiguo dell’astensionismo elettorale crescente. C’è soprattutto da riattivare il circuito virtuoso indicato dall’art.49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Va da sé che, come insegna la storia degli ultimi decenni, la responsabilità di recuperare questo rapporto ricada in primo luogo sui partiti. La questione morale è purtroppo sempre di strettissima attualità, come le cronache non cessano continuamente di ricordare. Ma c’è una moralità della politica che non riguarda soltanto il doveroso contrasto della corruzione, quanto la capacità di affrontare concretamente i problemi e, nei limiti del possibile, di risolverli. In un’ottica di bene comune e non di privilegio per singoli, gruppi, categorie. Solo così si potrà ricostruire una narrazione positiva della politica che motivi l’impegno diretto come anche il sostegno a chi direttamente si impegna. Leaderismo ed estremismo non aiutano, ma non è solo colpa dei partiti: le scelte dei cittadini possono dare un contributo decisivo nell’orientare l’azione collettiva e nel selezionare la classe dirigente.