Il fascino discreto della povertà. La scelta della povertà ha affascinato più di uno scrittore
C’è da domandarsi perchè questo fascino sia così persistente, non solo nei tempi andati, ma anche durante le recenti crisi economiche e la pandemia.
“Una casa deve avere una bussola e una chiglia”.
Mai frase potrebbe spiegare meglio il senso di abbandono totale ad una esistenza in eterno viaggio – e senza sostanze – celato in “Le cure domestiche” di Marilynne Robinson: un racconto che ci ha fatto conoscere non solo una grande scrittrice, tra l’altro di profonda spiritualità cristiana, ma che ci aiuta anche a capire quanto i nostri giudizi in fatto di povertà e ricchezza vadano radicalmente rivisti.
Una ragazzina sceglie di abbandonare tutto per seguire una zia vagabonda, che si è presa cura di lei e della sorellina (la loro mamma si è tolta la vita) e che ora sente però il richiamo della sua “vera” esistenza. Vivranno lavorando in qualche bar, o in hotel, purchè non sia per sempre, purchè non divenga un cappio che lentamente strangoli fantasia e libertà.
Ancora una volta la scelta della cosiddetta povertà ha affascinato uno scrittore.
E non solo nell’invenzione della trama: molti autori e artisti hanno scelto di diventare loro stessi personaggi di un copione che prevedeva l’abbandono della sazietà. Basterebbe pensare alle scelte di Rimbaud, Chlebnikov (un altro nomade senza quasi fissa dimora), Reverdy, che scelse i pressi di un’abbazia per vivere povero, Gauguin, Stevenson, lo stesso van Gogh, e molti altri.
C’è da domandarsi perchè questo fascino sia così persistente, non solo nei tempi andati, ma anche durante le recenti crisi economiche e la pandemia.
Già il pensiero antico, soprattutto con lo stoicismo, ma anche attraverso Socrate e Platone, per non parlare di Diogene, aveva messo in guardia dai falsi miti dell’accumulazione e del potere. Ma non è solo questo: è come se una parte profonda della coscienza collettiva, in ogni posto di questo pianeta, riaffiorasse e rimettesse in dubbio un benessere costruito sullo sfruttamento della natura e degli altri.
Anche perchè non è solo un fatto di letteratura: si pensi a Benedetto da Norcia e alla sua scelta, prima dell’isolamento e poi del cenobitismo, il che voleva dire all’inizio incertezza anche del cibo, e sì che proveniva da una cospicua famiglia; e come non riandare alla scelta di Francesco d’Assisi di rinunciare al benessere per vivere di poco o niente a contatto diretto, senza le mediazioni edilizie e gli inutili pleonasmi architettonici, con la natura e le sue creature? È probabile che quel “Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” evangelico abbia fatto breccia anche a livello profondo nel cammino di conversione di molti.
La stessa pittura è stata da sempre colpita da quella parte di mistero, quel ricordo inconsapevole di originaria, ma talvolta anche barbarica e violenta, (non tutto è rose e fiori in questa dimensione) discesa nell’essenziale che tanto aveva affascinato Pasolini: basti pensare al Rembrandt che raffigura mendicanti che bussano con i loro bambini alle porte delle case o a van Gogh che dipinge povera gente o minatori. Senza dimenticare il Carlo Levi pittore di poveri e contadini, ma anche autore di quel celebre racconto di reimmersione nell’essenziale che è “Cristo si è fermato a Eboli”.
Ma se vogliamo parlare di letteratura (solo per quello che riguarda il rifiuto volontario del benessere, altrimenti dovremmo citare molti altri scrittori di miseria e indigenza, come ad esempio Verga) e arte allora dobbiamo tornare al Pirandello – padre di un celebre pittore, Fausto, e, pochi lo sanno, lui stesso artista – di “Uno nessuno e centomila”: qui il fortunato Moscarda, che ha ereditato una banca, ha una bella casa e una moglie, decide di rinunciare per sempre a tutto questo, perché ha capito che la vita è nel sentire vicine le altre vite, non solo quelle umane, ma persino quella di un “albero, respiro tremulo di foglie nuove”, per “serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono”.
Il fascino dell’essenziale, se non vogliamo parlare di povertà, termine che è soggetto a molte interpretazioni, ha coinvolto tutti, credenti e non. Un fascino che ha a che fare con le nostre origini, con la necessità di tornare ad un giusto rapporto con la natura e a prendere un po’ di distanza dalle cose inutili. Perché il rischio è che siano loro a prendere noi.