Il dramma di una morte e lo spirito del paese
Due sono le cose che possono provocare le tragedie sul piano sociale: unire o spaccare le comunità. Se le rinsaldano, è perché nel dolore ci si ritrova. Si cementa il senso di unione e coesione. Si condivide. Si solidarizza.
Se invece dividono, è perché manca quello che per i latini era il “genius loci”, lo spirito del luogo. Ossia quel senso di appartenenza collettiva e collegiale, che Cesare Pavese ben concentra in pochi, sostanziali versi: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Orbene nel progetto di sviluppo veneto, la cosiddetta “città diffusa”, è venuto a mancare del tutto il “limes”, cioè il confine, tra “agro” e “urbe”, periferia e città. Così che in meno di trent’anni questo Veneto ha cambiato faccia e identità, incurante dei tempi lenti di adattamento della coscienza socio-individuale della sua gente. C’è una forte dipendenza, e non mi stancherò mai di scriverlo, tra ambiente, cultura e felicità. Le tragedie quindi, fungono da cartina tornasole dello stato di “salute” di una comunità, piccola o grande che sia. È in quel preciso momento che puoi tornare – o meno – a sentire di far parte in maniera attiva e viva “del paese”, nel senso di Pavese. Ne parlo in prima persona, dopo l’ennesimo, cruento, fatto di sangue che ha colpito il Veneto, la nostra provincia, il paese di Montegaldella. Una giovane donna massacrata con oltre quindici coltellate, per questioni – forse – di gelosia.
L’ennesimo “femminicidio” di un “amore malato”. Tralasciando la mera cronaca, qui il paradigma è raccogliere i cocci “sociali” che una tragedia improvvisa come questa può lasciare sulla comunità che ha travolto. Se e come i segni esteriori del dolore, siano simboli di un senso autentico di appartenenza e condivisione. Se leggere i segni dei tempi, equivalga a una presa di coscienza sociale. Lo dico forte anche degli antefatti che nella piccola Montegaldella, poco meno di 1.800 abitanti, dovrebbero smuovere le coscienze: una decina di omicidi e suicidi in meno di un decennio di storia.
Morti violente che per ragioni diverse sono completamente slegate tra loro, ma che hanno indotto in questi anni a confrontarsi con una realtà sconcertante. L’impressione tangibile, trascorso il momento del terremoto emotivo delle prime ore, sembra però essere quello della rimozione collettiva. Di quasi assuefazione: «È capitato!». Montegaldella, non è diversa dal resto del territorio, ma proprio perché piccola, dove tutti conoscono tutto di tutti, dovrebbe essere più facile creare una mappa delle emozioni.
Sconcertante è aver visto, invece, l’assenza totale all’indomani del fatto di movimenti spontanei di paesani che si ritrovano anche e solo per una preghiera collettiva. Una messa. Una fiaccolata. Un mazzo di fiori lasciato sul luogo del delitto a nome della comunità. Segni certo, che diventano reti d’appartenenza, salvezza e prevenzione che se mancano, diventano emblema della morte di una comunità, chiamata paese.