Il Coronavirus visto dal Monte Rua. "In questa Quaresima Dio ci mostra che c'è anche un altro modo di essere cristiani"
Da 500 anni gli eremiti vivono sul Monte, ma quando il 23 febbraio, la domenica immediatamente successiva ai primi contagi da Coronavirus, non hanno sentito le campane in pianure si sono fortemente preoccupati. Poi le notizie sono arrivate: "Di fronte allo sbigottimento delle comunità cristiane che non possono ritrovarsi, cerchiamo insieme quale parola ha Dio per noi in questo tempo. Questo è il tempo favorevole".
Qui internet non c’è. Non ci sono smartphone, social, new media. Le notizie hanno il passo lento del passa parola, o della carta che il postino deposita nella cassetta della posta arrampicandosi fin quassù. Eppure dal Monte Rua lo sguardo degli eremiti si posa spesso sul Venda, lì dietro c’è Vo’, il comune che tutta Italia ha imparato a conoscere per l’epidemia da Covid-19 in corso, che proprio lì ha portato via la prima vittima italiana, Adriano Trevisan.
Del Coronavirus si parla anche qui, nelle rare interazioni tra gli Eremiti camaldolesi di Monte Corona, presenti sulla sommità del monte fin dal 1537. Si riflette sui contatti avuti, sulle vulnerabilità possibili, ma l’animo dei cinque religiosi è sereno. Qui non c’è traccia dello smarrimento che in questo inizio di Quaresima si respira nelle comunità parrocchiali di campagna, città e montagna della Diocesi di Padova. I parroci ce lo raccontano nel numero della Difesa di domenica 8 marzo: non potersi incontrare, non vivere la comunità destabilizza, in alcuni casi fa anche soffrire. Sono molti i credenti sui social anche diocesani che si lamentano di non poter ricevere l’Eucaristia, di non poter partecipare alla messa. Su quwsto punto hanno mostrato perplessità anche il fondatore del monastero di Bose Enzo Bianchi. Anche Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha preso posizione. Lo stesso vescovo Claudio, infine, nella lettera inviata ai fedeli padovani martedì 3 marzo non ha nascosto le sue perplessità, ma ha anche dato ragione della sua obbedienza alle autorità civili e sanitarie in una situazione in cui l’intera cittadinanza è chiamata alla responsabilità.
«Mi permetto di dire che questo spaesamento e questo smarrimento di fronte al blocco delle attività e allo svuotarsi degli ambienti comunitari mi sembrano bellissimi – riflette padre Antonio Benzoni, giovane priore dal 2018 – Se in questo frangente ci manca così tanto la comunità, il contatto, anche la grazia di una semplice stretta di mano, significa che noi siamo proprio chiamati a essere comunità e che quando la ritroveremo la gioia sarà grande. Non mi piace quando si usa dire che siamo interconnessi: no, siamo uniti in una cosa sola, e in questo momento più che in altri, i miei comportamenti, le mie scelte, possono condizionare la libertà, la salute e il bene per l’altro. La fotografia dell’attuale sbigottimento tuttavia, se guardata al negativo, fa emergere tutto l’amore che abbiamo per la comunità».
Ci troviamo in un circostanza che non siamo in grado di misurare. Tornano alla mente le epidemie severe, come quella della Spagnola di cento anni fa, o i conflitti mondiali, quando la gente saliva da Torreglia per prendere il pane prelibato che usciva dal forno dell’eremo. «Comprendo il grave rischio di sentirsi perduti – continua don Antonio – Ma Dio, che ci scruta e ci conosce fin da prima che nasciamo, non è assente in tutto questo. Forse non siamo in grado di sentirlo, ma l’abbraccio caloroso del Padre è presente ora come sempre. C’è una Parola di Dio in questo tempo, anche attraverso questa circostanza il Signore parla: i vescovi e i pastori in genere fanno bene a sostenere il popolo attraverso i messaggi e le dirette streaming, ma alla fine ognuno di noi si ritrova solo di fronte a Dio, nel nostro cuore siamo chiamati a comprendere quale parola il Signore ci sta rivolgendo».
Impressiona comunque leggere ogni giorno il calendario delle iniziative annullate, rinviate, sospese, e tra queste pensare che ci sono anche i sacramenti, anzitutto l’Eucaristia. «Ho l’impressione che proprio ora, e chissà, forse non è un caso che siamo in Quaresima, Dio voglia dirci che c’è anche un altro modo di essere cristiani, che non è quello delle attività, del ritrovarsi, dell’esteriore. Esiste tutta un’attività interiore, nascosta, impegnativa perché richiede volontà e tempo, che sostiene anche l’attività esteriore. Questo è il tempo della lettura della Parola in forma personale, del commento magari in famiglia: ecco che si realizza la “Famiglia piccola chiesa” di cui parla Carlo Carretto. E poi nulla toglie la presenza di Cristo dentro di te: non c’è virus che tenga, non ci sono decreti ministeriali che possano staccarti da Gesù. Possiamo vivere la comunione spirituale, la preghiera delle ore, e approfittare dei sussidi di preghiera che la Diocesi ha preparato, oltre alle dirette sul web. Questo è il tempo favorevole, non ne abbiamo altri, occorre scovare le orme di Dio in questo tempo».
L’allarme che si è sparso nelle prime fasi del contagio, e che si riaccende a ogni nuovo decesso, non contribuisce a trovare serenità. Questo potrebbe valere anche per la sfera spirituale, non tutti siamo abituati a curarla e l’inquietudine disarma. «Certo, questo è anche un tempo di crisi, e le crisi il Signore non te le risparmia. Non ha risparmiato il Getsemani a Gesù, non ha risparmiato il tradimento dei suoi, le tentazioni del deserto al figlio prediletto – prosegue l’eremita – Non possiamo aspettarci che Dio tratti i cristiani diversamente da Cristo. Noi siamo nel deserto ora, sottoposti alla tentazione di non seguire le regole, di ribellarci. Non sappiamo cosa succederà, non sappiamo quanto l’emergenza durerà. E nella tentazione i padri del deserto ci dicono che occorre rimanere, rimanere, rimanere, e poi compiere piccoli passi possibili, le tre “p” di Chiara Corbella Petrillo. Anche negli eremi avvengono le crisi e nelle crisi i padri insegnano a rimanere e nel giorno dopo giorno la tentazione cambia e i muri del cuore si allargano, facendo posto anche per l’altro».
Le parole di don Antonio accompagnano il pomeriggio che scema. Alle 17 è ora del vespro per i cinque eremiti, poi la cena, la compieta e il grande silenzio, fino alle 3.30, quando la giornata inizia e la giornata ricomincia per questi figli di san Romualdo. «Quassù sembra di essere fuori dal mondo, si vede la bellezza del creato – conclude don Antonio – eppure anche qui siamo in comunione con il resto della Chiesa. Domenica 23 febbraio, dopo i primi casi di contagio, le campane delle parrocchie non hanno suonato. Per noi eremiti è stato uno scossone, ci chiedevamo cosa stesse accadendo di grave. Ci accompagna una certezza, tuttavia: tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, come scrive san Paolo ai Romani».