Gli emarginati dal lavoro. I più vulnerabili sono sempre gli stessi: giovani, donne e cittadini non italiani
E' importante interrogarsi sulle modalità di coinvolgimento di quanti sono rimasti ai margini del mondo della produzione.
Una quota di popolazione da coinvolgere nel mondo lavorativo è composta dai 3 milioni di inattivi che sarebbero disponibili ad essere occupati, se trovassero le condizioni adeguate. Un numero consistente di persone che è aumentato nell’ultimo anno di oltre 200mila persone. Queste persone rinunciano a cercare un’occupazione. Certo durante la pandemia sono aumentate, ma il dato è strutturale. Il loro allontanamento non è episodico.
Se viviamo un tempo di ricostruzione e abbiamo la possibilità di riorganizzare il nostro sistema sociale, allora è importante interrogarsi sulle modalità di coinvolgimento di quanti sono rimasti ai margini del mondo della produzione. La loro scelta è composta da vari fattori: il disorientamento che impedisce di individuare il percorso di inserimento giusto; la difficoltà a ritornare dopo aver interrotto l’attività per un periodo; la scarsa retribuzione o le minime tutele che portano a un calcolo tra costi e benefici e a domandarsi se è meglio rimanere inattivi o diventare un working poor. I lavoratori poveri in Italia, prima della pandemia, erano già circa 3 milioni. Si tratta di persone che guadagnano massimo 9 euro all’ora.
Un’indagine del Censis “Il lavoro inibito: l’eredità della pandemia” invita ad osservare i dati con una lente di ingrandimento per individuare in modo più chiaro quali siano le categorie più colpite dall’inattività. I più vulnerabili sono sempre gli stessi: giovani, donne e cittadini non italiani. Le rilevazioni ci mostrano che tra i 18-29enni il numero degli occupati è diminuito del 6,4% e il numero delle forze potenziali è cresciuto del 12,7% tra il 2019 e il 2020 (però vanno considerati quanti tra loro ancora sono studenti). Anche tra le donne è aumentata la componente di forza lavoro potenziale. Si legge nel report che “le donne che scelgono di non cercare lavoro e di non porre vincoli all’eventuale ricerca” sono state 272mila in più nel 2020 rispetto all’anno precedente. Più complessa, invece, risulta la condizione dei cittadini non italiani. In questo caso si rileva da un lato il più alto tasso di uscita dal lavoro (-7,2%), dall’altro lato molti si sono collocati tra quanti non ritengono di dare la loro disponibilità a nuove offerte di lavoro. Questo elemento – notano i ricercatori – lascia suppore l’ipotesi che tra molti di quelli che si sono dichiarati inattivi si nascondano molti lavoratori sommersi e irregolari.
Se vogliamo una ripartenza che costruisca una società diversa dal passato, allora non sarà sufficiente riavviare i motori, ma offrire nuove e migliori opportunità alle persone.