Emissioni illegali. Ancora problemi per il buco nell'ozono
Dal 2013, le emissioni annuali di CFC sono aumentate: la loro immissione in atmosfera risulta provenire in gran parte dalla Cina.
Purtroppo, ancora brutte notizie per la salvaguardia dell’ambiente. La rilevazione di alcuni dati atmosferici, infatti, dimostra – una volta in più – come miopi (e biechi) interessi economici, in varie parti del pianeta, spingano alcuni operatori del settore a compiere scelte scellerate e gravemente dannose per la salute e l’integrità del nostro ambiente vitale. Di cosa si tratta in concreto?
Per evitare ulteriori danneggiamenti allo strato di ozono che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette del Sole (il famoso “buco dell’ozono”), già nel 1987 era stato stipulato il trattato internazionale di Montreal (sottoposto poi a varie revisioni, l’ultima nel 1999 a Pechino), ad oggi ratificato da 196 stati più l’Unione Europea. Esso stabilisce regole comuni volte a ridurre la produzione e l’uso di quelle sostanze – in particolare i gas CFC (o clorofluorocarburi) – in grado di danneggiare lo strato di ozono, fino alla loro progressiva messa al bando.
Purtroppo, però, un recente studio (pubblicato su “Nature”), realizzato da un gruppo internazionale di ricercatori, coordinati da Matt Rigby dell’Università di Bristol, ha dimostrato che, dal 2013, le emissioni annuali di CFC sono inaspettatamente aumentate, e la loro immissione in atmosfera risulta provenire in gran parte da alcune regioni della Cina orientale.
Lo studio si è concentrato in particolare sul tracciamento del CFC-11, uno dei clorofluorocarburi più diffusi in passato. In verità, negli ultimi decenni, i livelli atmosferici di questo gas erano significativamente diminuiti, proprio grazie alla tenuta degli accordi assunti internazionalmente. Ora, però, le analisi dei dati rilevati mediante numerosi network di monitoraggio, sparsi in varie parti del mondo, hanno purtroppo evidenziato come, a partire dal 2013, ci sia stato un nuovo inaspettato rialzo di questo composto. Come mai? Risposta ovvia: da qualche parte del pianeta sono riprese emissioni illegali di questo gas. Dal momento che in passato esso era ampiamente impiegato come fluido di refrigerazione nei frigoriferi e come schiumogeno negli isolanti degli edifici, “proprio per escludere che l’aumento fosse realmente dovuto ad una nuova produzione – ha spiegato lo stesso Rigby – abbiamo esaminato le stime sulla quantità di CFC-11 che potrebbe essere inglobato in schiume isolanti in edifici o frigoriferi prodotti prima del 2010, ma le quantità erano troppo piccole per spiegare il recente aumento”.
Dunque, per poter stabilire la provenienza di questa sostanza, si è reso necessario allestire una nuova rete di rilevamento; finora, infatti, le centraline per la raccolta di dati erano collocate in punti molto lontani dalle possibili fonti di emissione, proprio per essere sicuri di rilevare le concentrazioni medie globali di CFC-11.
La nuova rete – che adesso copre diverse aree del Nord America, Europa, Australia meridionale, Corea e Giappone – ha così fornito dati più attendibili e completi, dalla cui analisi è emerso chiaramente che il 40-60 % delle nuove emissioni (pari a circa 7000 tonnellate all’anno di gas) proviene dalla Cina orientale, in particolare dalle province di Shandong e di Hebei. Per poter individuare i responsabili specifici di questo scempio ambientale bisognerà però chiedere la collaborazione diretta delle autorità cinesi, che peraltro, proprio di recente, hanno individuato e chiuso alcuni impianti di produzione illegali. Sono poi stati registrati aumenti minori anche in altri paesi o nelle regioni più occidentali della Cina, tutte aree troppo lontane dagli attuali punti di registrazione della rete di monitoraggio. Purtroppo, anche se più ampia della precedente, anche la nuova rete non copre molte aree del globo (specie nei paesi in via di sviluppo), rendendo parziale il valore dei dati raccolti. “Ma quel che è peggio – osservano i ricercatori – è che probabilmente abbiamo rilevato solo una parte del totale dei CFC prodotti. Il resto potrebbe essere incluso in edifici e refrigeratori e verrà rilasciato nell’atmosfera nei prossimi decenni”, causando quindi un allungamento del tempo necessario allo strato di ozono, ed in particolare al “buco” dell’ozono antartico, per “rimettersi in salute”.