È stato un adolescente in manicomio, a causa del Covid oggi è un anziano solo
Quarantadue anni in ospedale psichiatrico e 32 fuori. E ritrovarsi a vivere da solo per colpa del Covid. Alberto Paolini oggi ha 89 anni e vive in un appartamento di Roma. “Peccato essere rimasti in pochi a testimoniare gli anni degli ospedali psichiatrici”
Quarantadue anni in manicomio e 32 anni fuori. E ora ritrovarsi a vivere da solo: un po’ perché molti dei suoi vecchi amici, anche loro ex pazienti psichiatrici, sono morti e un po’ per via del Covid. Alberto Paolini oggi ha 89 anni e vive in un “appartamento assistito” nella Capitale. È un anziano un po’ curvo e senza capelli, dalla voce pacata e rallentata. Usa parole misurate. La sua storia racconta dell’internamento di un ragazzino nel primo dopoguerra, e di tre cicli di elettrochoc subiti, senza che su di lui fosse stata emessa una diagnosi iniziale. “Decisero di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà”, l’ospedale psichiatrico di Roma, “perché non sapevano dove altro mettermi”. Ci è rimasto dal 1948 fino al 1990. Da allora, quell’appartamento che lo ha ospitato alla fine del suo internamento è ancora la sua casa.
Alberto, come va?
"Insomma… Ormai sono vecchio e non sono più tanto autonomo. Non posso più fare gite e nemmeno andare ai soggiorni. Dipendo quasi in tutto dagli operatori della cooperativa sociale, che però sono cambiati: posso uscire solo se accompagnato da qualcuno, ho bisogno di aiuto per cucinare e per fare le pulizie di casa, e per via della pandemia ora vivo da solo. Non viene più nessuno a trovarmi. Chi viveva con me non c’è più o è stato trasferito. Prima frequentavo un centro sociale, ero assistito dal Centro di igiene mentale, poi dall’Unità operativa residenze assistite. Ora ha un altro nome, un’altra sigla, ma non me la ricordo. La mia memoria non funziona più tanto bene come una volta. Stranamente ricordo meglio le cose del passato. Peccato essere rimasti in pochi a testimoniare gli anni degli ospedali psichiatrici".
Nel periodo del ricovero, ha almeno un ricordo piacevole?
“Sì. Quando sul finire degli anni Settanta, sull’onda del pensiero di Franco Basaglia, alcuni giovani occuparono il Santa Maria della Pietà dando vita a dei laboratori espressivi. Io seguivo quello di scrittura: è lì che ho iniziato a scrivere la mia storia (poi confluita nel libro “Avevo solo le mie tasche”, edito da Sensibili alle Foglie, cooperativa fondata da Renato Curcio nel carcere di Rebibbia). Insieme ad altri pazienti avevo avuto il permesso di uscire per lavorare in un centro professionale. Poi si andava in gita, si facevano brevi soggiorni fuori, si andava al centro sociale. Erano anni molto liberali. Paradossalmente, ho avuto meno libertà dopo, una volta uscito”.
Partiamo dall’inizio a parlare di lei?
“Sono nato nel 1932. Sono orfano di papà dall’età di 5 anni e avevo una mamma molto severa che mi picchiava e mi teneva chiuso in casa da solo. Quando è morta anche lei mi hanno messo in un collegio di suore, ma erano cattive pure loro. Nel 1944 venni trasferito in un collegio di preti salesiani e iniziai a frequentare un corso di sartoria. Ma spesso ero vittima di ‘scherzi’ – oggi direbbero di bullismo –, così mi rifiutai di proseguire con l’avviamento professionale. Fu una decisione ingenua, perché decisero di ricoverarmi nella clinica neuropsichiatrica dell’ospedale Umberto I. Nel frattempo ero stato presentato a una coppia di benefattori perché si occupassero di me, invece, piano piano, si sono defilati. Dopo circa un mese i medici dichiararono che non c’erano i presupposti per un ulteriore ricovero, ma i salesiani non mi vollero più. Cercarono dei parenti, ma nulla”.
E quindi?
“Nel 1948 Roma era piena di sbandati, di profughi italiani di ritorno dalla Dalmazia, dall’Istria e dalle colonie africane, di orfani che vivevano di piccoli furti e dormivano sotto i ponti. Ma due anni dopo ci sarebbe stato il Giubileo e la città aveva bisogno di essere sistemata. I minori vennero messi negli istituti, ma non c’era posto per tutti. Io finii al Santa Maria della Pietà, con gli adulti perché il limite era 14 anni, nel padiglione dei lavoratori: prima in tipografia, poi nell’ufficio statistica della direzione, poi in biblioteca. In confronto al collegio, però, si stava bene. Il direttore, il professor Francesco Bonfiglio, era una persona in gamba, uno psichiatra all’avanguardia. All’interno del palazzo della direzione c’era un teatro dove venivano organizzati degli spettacoli, venivano attori e cantanti anche famosi. Io mi ricordo Claudio Villa, Achille Millo, quelli di Radio Campidoglio e le riprese Rai”.
Mi racconta del padiglione dei bambini?
“C’erano due padiglioni, inaugurati nel 1933 con il nome ‘Principe di Piemonte’: uno per i pazienti più gravi, come quelli Down, e l’altro per i bambini più normali. Allora comunque non si facevano tanti scrupoli, ed era facile finire internato. Nel 1947 divenne ‘Istituto medico-pedagogico Sante De Sanctis’. Avevo un amichetto di un anno più piccolo di me: sarebbe dovuto stare con i minori, ma nel dopoguerra quei reparti erano molto affollati. Comunque nel padiglione dei bambini normali c’era una specie di scuola e anche un cortile. Li vedevo spesso giocare a calcio. Poi c’erano alcuni benefattori che portavano dolciumi e qualche giocattolo. D’estate andavano al mare. C’era molta umanità nei loro confronti. Ma compiuti 14 anni, la maggioranza finiva con gli adulti. Ho conosciuto molti ex bambini del Santa Maria della Pietà”.
Poi cos’è successo?
“Nel 1955 cambiò il direttore. Ne arrivò uno molto severo, chiuso, rigido, che non faceva uscire nessuno se non i bambini. Subentrò una mentalità per cui non si guardava più ai malati di mente come a persone ben accette. I media mettevano sempre in luce la pericolosità dei pazienti. Forse per via di alcuni criminali che riuscivano a farsi mandare in manicomio per evitare il carcere o forse perché il Santa Maria della Pietà aveva anche un reparto psichiatrico giudiziario”.
Arriviamo agli anni più recenti…
“Nel 1978 la legge Basaglia sancì la chiusura degli ospedali psichiatrici. Ma il Santa Maria della Pietà non venne chiuso immediatamente: eravamo oltre mille pazienti, non era facile trovare posto per tutti. Nel frattempo, però, l’aria che si respirava era già cambiata: si poteva andare fuori per lavorare, si facevano feste e si andava in gita. Io sono uscito definitivamente nel 1990”.