E se un bambino fosse bene comune? Pensieri dopo la sentenza della Corte suprema Usa
Ferisce la violenza che si è scatenata dopo la sentenza della Corte suprema americana resa nota venerdì 24 giugno. La massima autorità giudiziaria degli Stati Uniti ha rimosso un’altra sua sentenza, quella del 1973 (Roe versus Wade) e ha decretato che la Costituzione americana non prevede un esplicito diritto ad abortire, la parola deve tornare al popolo e alle assemblee legislative.
Ferisce perché un evento così potente sul piano esistenziale di milioni di persone, prima ancora che sul piano legale, anziché essere visto come opportunità di confronto per poi giungere a una decisione comune – ciò che prescrive la Corte – viene utilizzato immediatamente come oggetto di contrapposizione frontale tra schieramenti che appaiono granitici. Di positivo c’è che sui giornali e in tv un tema tabù come quello dell’aborto è tornato al centro del dibattito.
Ciò che sembrava acquisito per sempre, e che ha fatto breccia anche nel cuore di molte istituzioni a livello europeo, oggi è tornato discutibile, almeno a livello mediatico. Viene da chiedersi se la stessa cosa stia avvenendo nelle famiglie, nella società, tra colleghi, amici, oppure no. E da parte nostra non manca di certo la curiosità di sapere come la pensano i lettori della Difesa. Ci troviamo di fronte a un tema spinoso, come sempre quando in gioco c’è la vita e quando diritti fondamentali possono finire per contrastarsi. Nei social, in questi giorni, sono comparsi moltissimi post, la grande maggioranza scandalizzati da quanto sentenziato in America.
Colpisce una grafica che si apre con una domanda: «Hai un utero?». Prima alternativa «no», diretta conseguenza «Taci» e fine dei giochi. Seconda alternativa «sì», con due possibilità: uno «Scegli tu», due «Se sei contro l’aborto non abortire». Una semplificazione efficace a livello mnemonico, sconcertante a livello valoriale. Sulla stessa falsa riga di molti cartelli visti alle manifestazioni di protesta scoppiate nelle città statunitensi, «My body, my choice»: il mio corpo, la mia scelta. Di certo la libertà e la capacità/possibilità decisionale della donna è un valore e non c’è dubbio – tanto più in un Paese come l’Italia – che una gravidanza e poi l’accoglienza di una nuova vita abbia un impatto sull’esistenza della mamma.
Per secoli la nostra società non ha saputo bilanciare tra i generi l’impegno fondamentale, necessario alla prosecuzione della vita, alla creazione di futuro. Eppure ci chiediamo se davvero permettere a una persona di nascere o meno possa essere letta solo come una scelta individuale. Impressiona sempre sentir parlare di un figlio come di un diritto: come se questa nuova vita che generiamo ci appartenesse o fosse l’oggetto attraverso cui realizziamo le nostre aspirazioni. Una nuova vita non appartiene a nessuno, è un dono in se stessa per il mondo, i genitori hanno solo il compito di accudirla fino al raggiungimento dell’autonomia. Allo stesso modo, ci chiediamo se dire no a una nuova vita sia davvero un diritto o non sia solo una scelta (che un parlamento può anche giudicare legale).
In questa nuova battaglia, emerge ancora una volta l’iperindividualismo che ci pervade. Il mio corpo, la mia scelta. Eppure c’è tanto della vita di ciascuno che trova senso solo quanto il mio corpo – ma anche la mia mente, la mia sensibilità, le mie scelte – entra in contatto con gli altri. Siamo “pubblici” in molte sfere, anche in quella familiare, giusto per fare un esempio: chi ha deciso di sposarsi lo ha fatto davanti a testimoni che rappresentano l’intera comunità, il matrimonio non è privato. Da qui la domanda: davvero la nascita di un bambino è solo un fatto che riguarda la sua mamma e (forse) il suo papà? O si tratta piuttosto di un bene comune, specie in un tempo di tremendo inverno demografico? Questo non significa che sia giusto togliere il potere di scelta alla mamma, significa non lascare sole le persone che affrontano una gravidanza con paura e incertezza. In Italia, da tempo, è possibile far nascere un bambino in anonimato, dargli la vita e affidarlo a una famiglia che lo accolga. Si tratta di una via preziosa.