Dopo il disastro nell'Altopiano: "La biodiversità salverà uomini e foreste"
Dobbiamo osservare la natura dove più si è mantenuta vergine per ricostruire i nostri boschi dopo la devastazione di fine ottobre. Daniele Zovi, per quarant'anni a servizio del corpo forestale dello Stato, spiega come il ripristino della biodiversità nelle nostre foreste aiuterà a far fronte ai fenomeni climatici più diversi. Il modello? Le foreste vergini di Bosnia e Lituania.
Dopo lo sconcerto generale di fronte a quanto accaduto tra il 29 e il 31 ottobre sull'Altopiano di Asiago, a causa dell'intensità delle piogge e della velocità del vento che ha sfiorato i 180 chilometri all'ora, adesso è il tempo dell'impegno. Ricostruire è imprescindibile, ma con una logica diversa rispetto al passato, mettendo al centro la naturale biodiversità di un ambiente unico per storia e per bellezza.
Ma il disastro di fine ottobre poteva essere evitato? Apparentemente no secondo Daniele Zovi, per quarant'anni a servizio del corpo forestale dello Stato, grande esperto della montagna veneta e dell'Altopiano di Asiago, autore di numerosi libri sui nostri boschi; l'ultimo in ordine di tempo sulla magia delle foreste è Alberi sapienti antiche foreste edito da Utet a inizio 2018.
«La causa più rilevante è stata l'intensità del vento a 176 chilometri all'ora, mai vista prima. Da qualche anno stiamo assistendo a fenomeni inediti, come l'alta concentrazione di pioggia che amplifica la capacità di erosione dei corsi d'acqua».
Ma una colpa ce l'abbiamo ed è il surriscaldamento del pianeta, che potremmo evitare con un tipo di sviluppo diverso.
«Nel 2017 l'emissione di anidride carbonica è stata maggiore rispetto al 2016... a cosa servono gli accordi internazionali di Kyoto, Parigi e Rio de Janeiro se poi chi ci governa a tutti i livelli continua a commettere gli stessi errori, se non peggio?».
La maggior parte dei fenomeni naturali a cui assistiamo ci sono sempre stati, ma si è drasticamente ridotto il loro tempo di ritorno.
«Se prima un'alluvione tornava con una cadenza di cinquant'anni, ora il fenomeno è ravvicinato e si scatena dopo cinque, sei anni, mettendoci estremamente in difficoltà».
Voci da più parti imputano la devastazione all'errore di piantumare a fine della Grande Guerra su tutti i boschi veneti l'abete rosso, che ha uno scarso apparato radicale, incapace di resistere a consistenti frane e smottamenti.
«Queste affermazioni non sono corrette. Dobbiamo ricordarci che i 10 milioni di alberi piantati con grande sforzo dai nostri nonni erano il risultato della cultura europea del tempo. Nel decennio dal 1920 al 1930, si aveva l'urgenza di ripristinare le foreste distrutte dalla guerra. Solo negli anni '70, quando amministravo le foreste dell'Altopiano, si decise di virare verso la biodiversità inserendo faggi e abeti bianchi. Come modello avevamo le foreste vergini in altre parti d'Europa».
Cosa rappresenta oggi la biodiversità?
«La soluzione migliore che ci suggerisce la natura. Le strutture forestali che più preservano la biodiversità sono le più stabili, resistono alle perturbazioni più diverse perché sono in grado di reagire. Un esempio chiaro? Per decenni le radure hanno rappresentato una sorta di horror vacui da riempire per forza sull'Altopiano; invece, sono fondamentali per lo sfogo degli ungulati: cervi, caprioli, camosci e anche qualche muflone che vive sull'Altopiano. Dobbiamo riprogettare la ricostruzione dei nostri boschi tenendo conto anche di questo».
Le foreste vergini sono le più forti perché lontane dalla logica della resa intensiva a cui invece sono sottoposte tutte le altre.
«I parassiti non progrediscono di fronte alla ricchezza forestale. Un esempio è la xilella che ha sterminato gli ulivi in Puglia, che sono stati cresciuti in maniera massiccia per sfruttare al massimo il rendimento della coltura. È logico infatti che le foreste si ammalano di meno se vengono piantati alberi diversi perché, ad esempio, un parassita dell'abete rosso non intacca anche il faggio e così l'infestazione si ferma».
Le crisi portano anche opportunità. Pur tenendo conto che gli abeti abbattuti dalla furia del vento sono il 10 per cento dell'intero patrimonio boschivo altopianese, ora il bosco va ricostruito secondo altri principi.
«I modelli più belli a cui possiamo aspirare sono le foreste vergini in Lituania e Bosnia che, oltre all'abete rosso, hanno varietà di abete bianco, acero, faggio, sorbo degli uccellatori, ciliegio selvatico. Solo così realizzeremo boschi sani. Dobbiamo tener conto poi dell'età delle piante: come esistono quelle di 200, 300 anni, servono quelle più giovani e le neonate».
Il disastro può trasformarsi in motore di sviluppo economico?
«Certo. Il mezzo milione di tronchi caduti a terra va rimosso nell'arco di due anni perché deperisce e si deprezza, rischiando di infestarsi con il bostrico dell'abete rosso, che si riproduce in maniera esponenziale e intacca anche le piante sane. Poi, per progettare la ricostruzione privilegiando la biodiversità, vanno riaperti i vivai locali con piante autoctone da sviluppare e poi trapiantare».
Sull'Altopiano c'è anche una segheria chiusa recentemente per fallimento.
«Non ci vorrebbe tanto a riaprirla perché era attiva fino a poco tempo fa. I tronchi potrebbero ottenere una prima lavorazione sul posto. Compriamo tavole dalla Norvegia e dalla Svezia, importiamo pellet dalla Serbia. Non è un controsenso?».