Dipendenza affettiva, una “new addiction” molto diffusa ma poco conosciuta
La psicologa Ameya Gabriella Canovi racconta come funzionano le relazioni amorose “eccessive”, che originano dinamiche analoghe a quelle delle nuove dipendenze. Mancano però studi scientifici e una preparazione adeguata sul tema: “Online si trovano molte persone che si improvvisano esperte”
“Avere una dipendenza affettiva significa relazionarsi con l’altro con una modalità caratterizzata dal ‘troppo’: troppo attaccamento, troppa ansia dell’abbandono, troppa paura di non saper funzionare senza il partner. Si tratta di una dipendenza ancora poco conosciuta, ma che colpisce tantissime persone, anche le più insospettabili”. La dottoressa Ameya Gabriella Canovi, psicologa esperta di dinamiche disfunzionali nelle relazioni, fondatrice del blog “Di troppo amore”, spiega quello che significa la dipendenza affettiva a partire da cosa non è: non è una relazione sana, non è condivisione e scambio tra due interi, non è felicità, né amore. “Nella dipendenza affettiva, una persona viene vissuta come una stampella dell’altro: uno dei due partner si sente incompleto, inadeguato, escluso, e chiederà all’altro di colmare quel vuoto”.
Nel 2013 la dipendenza affettiva è stata inserita per la prima volta nel Dsm-5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il “testo sacro” degli psichiatri: è stata introdotta come “new addiction” insieme ad altre nuove dipendenze, al pari del gioco d’azzardo, dello shopping compulsivo, della dipendenza da internet o da sport. Nonostante questo, la dipendenza affettiva è ancora poco studiata e c’è pochissima letteratura scientifica in merito: recentemente, il tema è entrato nel dibattito pubblico italiano anche grazie al podcast di Selvaggia Lucarelli, “Proprio a me”, che ha raggiunto più di un milione di ascoltatori. Su internet fioriscono i blog e le pagine che trattano questo tema, eppure bisogna stare attenti: “Purtroppo ci sono molte persone che si improvvisano e si definiscono ‘esperte in relazione’ senza avere la preparazione necessaria – mette in guardia Canovi –. Bisogna stare molto attenti e leggere bene il curriculum dei professionisti a cui ci affidiamo: fare un percorso con chi non ha la preparazione necessaria è inutile, oltre che dannoso, e può essere anche molto dispendioso a livello economico”.
La dipendenza affettiva, infatti, non si può trattare con superficialità: si tratta di un problema con origini lontane nel tempo, come “un fiume carsico che scorre sotterraneo”, come spiega Canovi. La causa si trova in eventi accaduti quando eravamo piccoli, risultante da un insieme di più fattori: il temperamento del bambino, la sua storia personale, come ha vissuto determinate vicende. “A un certo punto, nella storia del bambino si trova uno strappo, un arresto dello sviluppo lineare ottimale – afferma Canovi –. Questo può essere dovuto al fatto che il piccolo non si è sentito accudito come avrebbe voluto, oppure che si è sentito troppo accudito: l’iper-accudimento causa infatti le stesse mancanze dell’assenza del genitore. Si parla sempre di un eccesso: troppo, o troppo poco”.
Le conseguenze di questo “troppo” continueranno a farsi sentire nella vita emotiva della persona, che da adulta svilupperà un attaccamento esagerato al proprio partner, attuando su di lui una proiezione genitoriale. “È il bambino che non sa stare senza il genitore, non la donna o l’uomo adulto – spiega Canovi –. Quando porto questo nodo irrisolto nella relazione, finisco per chiedere all’altro di ricucire uno strappo ed entro nel rapporto con una pretesa: la dipendenza affettiva mendica la relazione, l’altro si sente investito di una richiesta eccessiva e spesso finisce per allontanarsi”. Come uscire allora da questa dinamica disfunzionale? “Questo burrone affettivo non può essere colmato dall’esterno: l’unico modo è andare alla fonte e capire dove tutto ha avuto origine – continua Canovi –. La terapia allora è una riconnessione con le proprie radici e un cambio di sguardo. Invece che pensare a tutto quello che mi è mancato, devo arrivare a riconoscere ciò che ho ricevuto: la vita, un’istruzione, una casa. Questo permette di risignificare quello che prima percepivo come un vuoto”.
Ma la dipendenza affettiva non ha solo un’origine personale ed emotiva, dovuta a eventi vissuti nell’infanzia: c’è anche tutta una cultura che negli anni l’ha supportata, legittimandola attraverso l’esaltazione di un amore morboso, che tutto è tranne che sano. “Le canzonette sono fuorvianti. Pensiamo alla Vanoni che cantava: ‘Amore, fai presto, io non resisto, se tu non arrivi non esisto’. Oppure rileggiamo il finale delle fiabe: perché la principessa deve aspettare il principe per svegliarsi? Può mettersi un allarme”. In particolare, sono le donne che storicamente vengono considerate più fragili e bisognose di aiuto, e questo fa sì che la dipendenza affettiva sia oggi più diffusa proprio tra le donne, anche se ci sono anche moltissimi uomini a soffrirne. “Questa cultura ci fa credere che quell’emozione del ‘non posso vivere senza di te’ sia amore, ma non è così – conclude Canovi –. Bisognerebbe allora realizzare percorsi educativi con i bambini e le bambine nelle scuole, per dare loro gli strumenti per affrontare le loro mancanze e guardare in faccia al vuoto, in modo che in futuro non cerchino di riempire quel buco attraverso una dipendenza. Dobbiamo far passare l’idea che la relazione sana non è fusione, bensì condivisione tra due persone intere, dove ognuna è protagonista del proprio mondo”.
Alice Facchini