Covid 19 morde i poveri: viaggio tra i missionari padovani in Ecuador, Brasile, Thailandia, Kenya ed Etiopia
C’è un’inevitabile preoccupazione diffusa per il Covid 19 anche nei Paesi nel mondo dove sono operano i missionari della nostra Diocesi. Le notizie arrivano sempre puntuali tramite il Centro missionario, sono rassicuranti sulla salute dei missionari, ma descrivono situazioni ogni giorno più drammatiche in Paesi dove i sistemi sanitari sono fragili, se non addirittura già al collasso, e dove spesso lo Stato non è in grado di garantire diritti essenziali.
Ecuador
Non ha lasciato indifferenti vedere le immagini dell’ostensorio con il Santissimo tra le mani del nunzio apostolico in Ecuador, l’arcivescovo Andrés Carrascosa Coso, mentre il giovedì santo sorvolava in elicottero Guayaquil impartendo la benedizione, così come altri vescovi ecuadoregni stavano facendo sulle Ande, a Cuenca.
In Ecuador i casi di contagio sono oltre 7 mila con centinaia di vittime accertate, ma i numeri sono opinabili in un Paese dove l’anagrafe praticamente non esiste. «Tutto è esploso nella megalopoli di Guayaquil, la situazione sta diventando drammatica giorno dopo giorno perché la gente non ha denaro a sufficienza per permettersi la sepoltura e tiene i morti in casa anche sei, sette giorni prima di decidere dove abbandonarli, se nelle zone periferiche o lungo il fiume». A raccontarlo è Alessandro Brunone, fidei donum insieme alla moglie Francesca, che con don Saverio Turato e don Mattia Bezze e una piccola comunità di suore terziarie francescane seguono a Duran, periferia di Guayaquil, le due parrocchie di Nuestra Senora del Perpetuo Socorro e San Francisco più la zona pastorale di Los Recintos.
Il sistema sanitario è al collasso: «La rete di ospedali pubblici è pari a zero; quelli privati hanno immediatamente chiuso i battenti perché sono privi dei mezzi necessari per affrontare l’epidemia e le cure. A Guayaquil sono rimasti aperti solo cinque ospedali privati, che accolgono solo in caso di crisi respiratoria acuta, per un bacino di milioni di persone. L’esercito ha imposto il coprifuoco, ma la gente è costretta a una vita ambulante per poter mangiare: nelle baracche si vive in quattro, cinque persone, non c’è posto per restare di giorno quando l’umidità raggiunge il 40 per cento. Se non escono non mangiano e questo dramma si aggiunge al Covid 19».
I nostri missionari cercano di tutelarsi il più possibile per evitare il contagio, ma questo non impedisce loro di raggiungere le zone periferiche con tute, guanti e mascherine per consegnare i generi alimentari e di prima necessità ai più poveri. «Solidarietà più forte del virus» scrive il Centro missionario diocesano nella sua pagina Facebook documentando con le immagini il servizio agli ultimi di don Mattia e don Saverio.
Brasile
In Brasile gli oltre 23 mila contagi (su una popolazione totale di 200 milioni di abitanti) sono al momento concentrati negli Stati più popolosi del Sud del Paese: São Paulo e Rio de Janeiro.
A Roraima, 600 mila abitanti nel Nord del Brasile, la situazione è ancora sotto controllo, ma il picco è previsto tra fine aprile e metà maggio. «La sera di Pasqua – racconta don Luigi Turato da Caracaraì – è uscito un reportage sul più importante canale tv, dove è stata mostrata la preoccupante situazione dei popoli indigeni, perché si trovano in zone isolate e molto difficili da raggiungere, ma quando sono avvicinati da cercatori d’oro illegali il rischio d’infezione diventa ancora più grande. Nei campi profughi alla frontiera con il Venezuela sono stati distribuiti kit igienici e informativi in via preventiva. Noi a Caracaraí stiamo bene e rimane la regola dell’isolamento sociale con la chiusura di scuole, uffici e chiese».
Thailandia
Tutto è blindato nel Paese asiatico, anche a Chae Hom e a Lamphun dove risiedono i tre fidei donum diocesani. Don Attilio De Battisti da Lamphun descrive una situazione non grave, ma il bombardamento mediatico e soprattutto la rete social, piena di inesattezze e bufale, allarma in modo spropositato la gente. Al 12 aprile gli infettati ufficiali in Thailandia erano poco più di 2.500 con 37 vittime. «A me stupisce l’età media di 37 anni degli infettati totali. Lo stato di quarantena è stato prolungato a maggio, mentre le scuole apriranno a luglio anziché a fine maggio. Quest’ultima misura credo voglia forzare la scuola a sperimentare l’insegnamento a distanza, anche se non c’è emergenza. Questa finalità nascosta, allargherebbe la distanza tra scolari e istituti didattici».
La zona industriale di Lamphun sembra non abbia a che fare con l'emergenza, se non fosse per l’obbligo della mascherina. «Motorini a fiumi, mercato affollato, distanziamenti impossibili. Solo un po’ di scanner all’ingresso e gel per le mani. Noi abbiamo fatto Pasqua con le nostre tre suore, mettendo preghiere, testi e qualche foto nel gruppo Line (Whatsapp locale) della parrocchia. Abbiamo celebrato con la stessa solennità e preparazione di quando avevamo popolo, che comunque non supererebbe il centinaio di persone. Ma ci suona strano, come a tutti, salutare, predicare, pregare l’eucarestia senza un contatto fisico. Assistiamo al moltiplicarsi di celebrazioni online di bassa qualità, purtroppo senza nessuna indicazione ufficiale da parte del vescovo».
Etiopia
Dopo i primi contagi delle scorse settimane registrati ad Addis Abeba, giorno dopo giorno cresce la preoccupazione in Etiopia, anche a causa della precarietà del sistema sanitario. «Va tenuto conto anche di come la gente comune, e non solo i poveri, riesca a recepire e attuare certe misure di prevenzione: il servizio dell’esercito e della polizia cerca di assicurare il rispetto di norme che non è istintivo accogliere e rispettare. Solo chi può seguire l’informazione internazionale si rende conto della gravità e di come certe misure siano indispensabili per prevenire il contagio». A raccontarlo è don Nicola De Guio da Adaba, nella prefettura di Robe, dove con Elisabetta Corrà e don Stefano Lazzaretto segue le parrocchie di Dodola e Kokossa.
A complicare le cose adesso è stata l’invasione di locuste dal deserto, che hanno devastato 200 mila ettari di terreni agricoli rendendo necessari aiuti alimentari d’emergenza per un milione di persone. Con le abbondanti piogge degli ultimi mesi, infatti, miliardi di cavallette si sono riversate nella regione, causando immensi danni non solo in Etiopia, ma anche Somalia, Kenya, Gibuti, Eritrea, Tanzania, Sudan e Uganda.
Kenya
Dopo i primi contagi a metà marzo il presidente Uhuru Kenyatta ha disposto il lockdown della metropoli di Nairobi e delle zone periferiche attorno. «Ma come sarà possibile – si domanda con amarezza don Vittorio Grigoletto, parroco di Weru a Nyahururu – chiudere le varie baraccopoli piene di gente che vive alla giornata di espedienti e di lavori saltuari, in una miseria indescrivibile e in una promiscuità tragica? Se l’infezione farà il suo corso come nei paesi europei o come in America, qui ci sarà di certo un disastro umanitario che travolgerà tutto. Già ora l’economia del paese è quasi al collasso».
«In Africa, luogo di siccità, fame, cavallette come in questo tempo anche in Kenya, nell’Africa che vede centinaia di migliaia morire ogni anno per la malaria, col diabete galoppante, con la tragica incombenza dell’Ebola, con una mortalità infantile da brivido, anche il Coronavirus deve mettersi in coda prima di allarmare più di tanto. È certo che la capacità africana di sopportare disgrazie, dolore, privazioni e morte non è paragonabile a quella della gente bianca in genere».
Emergenza, donazioni alle missioni
Per sostenere le missioni diocesane in questo momento di forte difficoltà causata dal Coronavirus, è possibile farlo con una donazione attraverso semplici modalità illustrate sulla pagina www.centromissionario.diocesipadova.it/dona-ora