Coronavirus, “la mia pandemia dietro le sbarre”

Durante l’emergenza Covid-19, M. era rinchiuso nel carcere di Bologna: ha assistito alla rivolta dei detenuti, all’aumento dei contagi, al primo morto per coronavirus, fino alla nascita di un braccio riservato ai detenuti positivi. “Quando sono uscito, il mondo fuori era cambiato. Ancora adesso la notte non riesco a dormire”

Coronavirus, “la mia pandemia dietro le sbarre”

“Vivere la pandemia da dietro le sbarre è stata una delle esperienze più angoscianti della mia vita. In poche settimane ho assistito all’aumento del numero dei contagi, alla rivolta in carcere, fino alla nascita di un braccio riservato ai detenuti che avevano contratto il Covid-19. Quando sono uscito, il mondo fuori era cambiato”. M. parla con un forte accento napoletano, passando al dialetto nei momenti più intensi del suo racconto. Ha mani grosse e possenti, che si muovono però con movimenti delicati e attenti. Quelle stesse mani in carcere lo hanno aiutato a difendersi e a sopravvivere, “perché, in un ambiente così, reagire con la violenza è l’unico modo per non venire schiacciati”. La sua detenzione è iniziata il 5 febbraio, quando è stato rinchiuso nell’istituto penitenziario della Dozza di Bologna per scontare un residuo di pena: ne è uscito il 5 maggio, esattamente tre mesi dopo, quando il giudice gli ha concesso di tornare a casa in affidamento.

“All’inizio il coronavirus era qualcosa di lontano, che vedevamo solo attraverso lo schermo del televisore e che ci sembrava un problema della Cina – racconta M. –. Poi sono arrivati i primi casi in Italia, e così ho iniziato a preoccuparmi. Fuori c’erano mia moglie e mia figlia di quattro mesi: ero molto agitato, in un momento così avrei voluto essere vicino a loro. Fino a che il Covid non è venuto a bussare direttamente alle porte del carcere, e allora è scoppiato il caos”. Quello che M. chiama “caos” è la rivolta della Dozza, scoppiata lunedì 9 marzo e conclusasi 24 ore dopo con un bilancio di un morto, 22 feriti e diverse aree del carcere completamente saccheggiate.

“Quel lunedì si respirava un’aria strana – ricorda –. Alle 12.50 come sempre siamo rientrati dal passeggio, ci hanno portato in cella e poi improvvisamente tutte le guardie sono sparite. Io tenevo il vetro della finestra inclinato in modo da riuscire a vedere specchiata la rotonda dove di solito stanno i secondini: era tutto deserto. Poi nel cortile abbiamo cominciato a sentire delle voci nervose, gli agenti si erano concentrati fuori e correvano di qua e di là. Lì ho capito che era iniziata la rivolta”. 

Le ore successive sono state convulse. I detenuti rimasti chiusi dentro le celle sono rimasti per ore senza cibo né terapie mediche, ma soprattutto senza tabacco: “Lasciare i detenuti senza tabacco è sicuramente il modo migliore per incendiare una rivolta – spiega M. –. Erano tutti nervosissimi, ma io ho fatto in modo che nessuno si muovesse: temevo che ci sarebbero state ripercussioni e che ci avrebbero allungato la pena, mentre io volevo solo uscire il prima possibile per tornare dalla mia famiglia. Per tenere buoni gli altri ho iniziato a distribuire il tabacco che mi era rimasto, centellinandolo, un pochino a ciascuno, cercando di convincerli a stare calmi e aspettare”. 

Chiuso nella sua cella, M. non sapeva cosa stesse succedendo a poche decine di metri da lui. Solo dopo avrebbe scoperto che la rivolta è partita dal braccio C, dove i detenuti hanno dato fuoco ai materassi, per poi sfondare i cancelli e assaltare l’infermeria, fino a salire sul tetto, per protestare contro la sospensione dei colloqui con i familiari, disposizione presa per evitare la diffusione del coronavirus. “La verità è che le misure per contenere l’epidemia sono da subito state insufficienti – racconta –. All’inizio avevano montato una tenda della protezione civile vicino ai cancelli d’ingresso, dove provavano la febbre agli agenti, ai medici e agli infermieri che entravano. Ma se qualcuno fosse stato asintomatico, o nel periodo di incubazione, non sarebbe stato bloccato. Una volta dentro, il virus aveva la strada spianata: in una cella di 2 metri per 3 è difficile mantenere la distanza di sicurezza e le mascherine sono arrivate solo a fine marzo. E poi, ogni braccio ha solo due ricevitori per fare le telefonate, ce li passavamo. Il risultato era ovvio: nel giro di qualche settimana abbiamo iniziato ad ammalarci”.

M. racconta che a nessuno è stato fatto il tampone e chi chiedeva di essere visitato da un medico spesso veniva ignorato. Così, tra i detenuti si era instaurata una regola non scritta: se stai male, durante le ore d’aria resti in cella. “Questo non ha impedito alla malattia di diffondersi – sospira –. A un certo punto la direzione ha dovuto trasformare il braccio C in reparto Covid, dove venivano rinchiusi i detenuti che risultavano positivi. Io stesso sono entrato in contatto con un lavorante che poco dopo si è ammalato, il rischio di contrarre il virus era altissimo. Per me è stata una grande ingiustizia: nel momento in cui entri in carcere lo stato ti prende in custodia e dovrebbe tutelare la tua incolumità, ma purtroppo non è così che funziona. C’era già stato il primo morto e otto persone erano positive quando è arrivato il mio ordine di scarcerazione: non potevo crederci, l’incubo era finito. Eppure, ancora adesso, la notte non riesco a dormire”.

Alice Facchini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)