Come “comunicare il carcere” e favorire percorsi di rinascita: l'incontro dei cappellani del Triveneto
“Comunicare il carcere”, ovvero come sensibilizzare la comunità alle problematiche delle persone detenute, è stato il tema affrontato lo scorso 17 settembre a Zelarino (Venezia) nel corso dell’incontro periodico - che avviene, all’incirca, ogni due mesi - tra i cappellani delle carceri del Triveneto e le religiose impegnate in queste realtà.
Ha introdotto e lanciato la discussione il giornalista Mauro Ungaro - direttore del settimanale “Voce Isontina” di Gorizia e segretario esecutivo della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici) - che ha sottolineato come il settimanale diocesano sia strumento non soltanto di informazione ma soprattutto di lettura, con gli occhi della fede, del proprio territorio inteso come “luogo teologico”, invitando perciò in modo particolare i cappellani - definiti evangelizzatori a larghissimo raggio e sempre in dialogo con tanti, credenti e non, cristiani e non - a bussare maggiormente alle porte e alle pagine dei settimanali diocesani affinché la loro esperienza non vada perduta ma sia valorizzata, aiutando così ad informare e a creare opinione, senza limitarsi alle notizie dal carcere in occasione della visita natalizia o pasquale del vescovo.
I cappellani si sono, quindi, interrogati, su come sia possibile evitare i pregiudizi delle persone nei confronti dei detenuti - ma anche luoghi comuni o puri slogan - e come aiutare, su questo punto, le comunità ecclesiali. Cappellani, religiose e volontari, in effetti, hanno la grande opportunità di raccontare storie autentiche ed esperienze di riscatto, di rinascita, cadute e riprese di speranza che possono toccare e riguardare molti. Il pianeta carcere, infatti, riguarda non solo chi è recluso ma tutti, ad iniziare da quanti hanno a che fare con un familiare, un parente o un conoscente momentaneamente in carcere.
Si tratta - è stato osservato - “di coinvolgere e sensibilizzare la nostra gente alla fraternità, a superare il giustizialismo, ad aprire cammini di riscatto. E per farlo non servono discorsi astratti, ma racconti di storie avvenute, interviste ai protagonisti”. La sensibilizzazione e l’esigenza di maggiore comunicazione non può, però, fermarsi a quest’ambito ma deve toccare anche altre questioni e altri contesti: ad esempio le specifiche attenzioni da avere nei riguardi dei malati psichici in carcere, l’educare i giovani ad un approccio meno “selettivo” e rigido verso chi ha sbagliato, la sensibilizzazione dei sacerdoti affinché si mobilitino maggiormente qualora un loro parrocchiano diventasse recluso e sostenendo anche il più possibile (insieme all’intera comunità parrocchiale) le famiglie dei detenuti. Si può, insomma, avviare un dialogo proficuo tra chi opera nelle carceri e la comunità ecclesiale, per avviare e favorire percorsi di rinascita.