Chiare, fresche, dolci acque? Lo sversamento in mare delle acque reflue e dei veleni in esse contenuti
A livello globale, le acque fognarie riversano in mare una quantità di azoto pari a circa il 40% di quello dilavato nei liquami agricoli.
Il mare, l’azzurra “culla della vita” sul nostro pianeta, un tesoro insostituibile di risorse vitali e di bellezza multiforme. Eppure, anch’esso “soffre” sempre più, progressivamente avvelenato e deturpato da attività umane sconsiderate, come fosse un enorme contenitore d’immondizia. Basti pensare – per citare solo un esempio – allo sversamento continuo di liquami che, dalle tubazioni degli scarichi, in tutto il mondo, defluiscono nei fiumi e nei mari, minacciando la salute umana e gli ecosistemi acquatici. Un disastro continuo che ha attirato, ormai da diversi anni, anche l’attenzione degli studiosi dell’ambiente, alla ricerca di possibili soluzioni, prima che i danni diventino irreparabili.
Con questa prospettiva, una nuova ricerca (di recente pubblicata su “PLOS ONE”) è stata condotta da Cascade Tuholske, geografo all’Earth Institute della Columbia University, insieme ad un gruppo di suoi colleghi. Già da tempo, alcuni specifici siti sono stati riconosciuti come fonti primarie di inquinamento costiero, ma “ad oggi – spiega Tuholske – non abbiamo mai avuto un’idea dell’entità globale del problema”. Perciò, il team di ricercatori ha deciso di condurre un esame approfondito del problema, impegnandosi a calcolare, in quasi 135.000 siti in tutto il mondo, le quantità di patogeni fecali e di azoto (in grado di alimentare fioriture di alghe dannose, con conseguente creazione di zone morte, prive di ossigeno) scaricate nell’oceano con le acque reflue umane. Tuholske e colleghi hanno così potuto verificare che circa la metà dell’inquinamento da azoto si poteva attribuire a soli 25 siti, così come circa la metà degli agenti patogeni. In alcuni casi, i siti coincidevano. Sicuramente, questi risultati potrebbero orientare l’azione di collaborazioni internazionali e aiutare i decisori a individuare nuove e più efficaci strategie di trattamento delle acque reflue, soprattutto per le aree contaminate.
Finora, molti degli scienziati che studiano l’impatto umano sugli ecosistemi costieri avevano concentrato le loro analisi essenzialmente sull’inquinamento agricolo, dato che i fertilizzanti che vengono dilavati in mare contengono ingenti quantità di nutrienti e agenti patogeni in grado di danneggiare gli ambienti marini. Molta meno attenzione si è prestata invece agli effetti dei liquami umani, forse anche perchè, a differenza dei rifiuti o degli sversamenti di petrolio, i liquami possono essere invisibili nell’acqua. “Mi hanno portato su spiagge che sembravano belle e pulite – ricorda Joleah Lamb, scienziato marino dell’Università della California a Irvine – ma poi, quando esaminavo l’acqua, ci trovavo quantità significative di patogeni umani”.
Come spiega lo stesso Tuholske, esistono diversi metodi per trattare le acque reflue, ciascuno con i suoi vantaggi e svantaggi. Ad esempio, gli impianti di trattamento delle acque filtrano completamente gli agenti patogeni, mentre risultano meno efficaci nel rimuovere l’azoto, oltre ad essere costosi da costruire, far funzionare e manutenere. I sistemi settici, invece, più economici, riescono a catturare la maggior parte dell’azoto, ma sono meno efficaci nell’impedire agli agenti patogeni di diffondersi nell’ambiente. Perciò, riuscire a identificare i luoghi dove l’azoto e gli agenti patogeni trasportati dalle acque reflue sono problemi combinati o, al contrario, separati, può aiutare i decisori a individuare le soluzioni più efficaci. Proprio per colmare questa lacuna di informazioni, Tuholske e il suo gruppo hanno analizzato i dati demografici delle comunità urbane e rurali di tutto il mondo, esaminando al tempo stesso l’accesso di queste comunità ai diversi tipi di trattamento delle acque reflue; quindi, sulla base delle statistiche nazionali sui consumi di proteine, hanno provato a calcolare le quantità di azoto presumibilmente contenute nelle escrezioni umane. I dati così ottenuti hanno permesso ai ricercatori di costruire una mappa globale, che mostra da dove provenivano l’azoto e gli agenti patogeni nelle acque di scarico e come queste sono trattate. Infine, Tuholske e colleghi hanno integrato questa mappa delle fonti di acque reflue con i confini dei bacini idrografici (le aree che drenano in uno dato corpo d’acqua, come un fiume) e con le posizioni delle barriere coralline e delle praterie di fanerogame che sono sensibili all’inquinamento. Insomma, un gran lavoro!
Con quali risultati? Il team ha potuto verificare che, a livello globale, le acque fognarie riversano in mare una quantità di azoto pari a circa il 40% di quello dilavato nei liquami agricoli. Dunque, pur se meno visibili, gli scarichi delle fognature contribuiscono significativamente all’inquinamento da nutrienti. E’ anche emerso che l’azoto delle acque fognarie umane raggiunge circa il 58% delle barriere coralline del mondo e l’88% delle praterie di fanerogame (questi ecosistemi costieri sono importanti habitat per la fauna selvatica e possono aiutare a mitigare il cambiamento climatico sequestrando il carbonio).
Infine, Tuholske e colleghi hanno messo in evidenza come l’inquinamento delle acque reflue sia un problema territorialmente molto concentrato. La metà dei bacini idrografici analizzati, infatti, non ha praticamente scaricato azoto fognario o agenti patogeni negli oceani. Soltanto 25 bacini idrografici, sparsi in quasi tutti i continenti e in più paesi, hanno apportato circa il 46% dell’azoto delle acque reflue, mentre altrettanti bacini hanno apportato il 51% per cento degli agenti patogeni riversati in mare dalle acque reflue. Più in dettaglio, le principali fonti di azoto includono il bacino del fiume Yangtze in Cina, (11% del totale), il Nilo nel nord dell’Africa, il Mississippi negli Stati Uniti, il fiume Paraná in Sud America e il Danubio in Europa.