Catechesi di un funerale. Sammy Basso e la sua lezione francescana
Il nostro racconto del commovente funerale di Sammy Basso, divenuto catechesi francescana. Attraverso le sua vita e le parole del testamento letto dal vescovo Brugnotto, Sammy ha dimostrato che la felicità è un modo di vedere, e che anche una vita breve può essere incredibilmente piena.
Si è trattato del funerale più francescano a cui abbia mai assistito. Eppure, di frati non ce n’era uno! Lo stesso nome di Francesco d’Assisi aleggiava continuamente tra i canti e i simboli, come il grande Tau posto sul coperchio della bara di legno chiaro. Anche il “testamento spirituale” letto come omelia aveva un marchio distintamente francescano. Si è unito il “Sora nostra morte corporale” fino al suo post scriptum letto dal vescovo di Vicenza, Giuliano Brugnotto, che trasudava saggezza e ironia: “State tranquilli, tutto questo è solo sonno arretrato”. Queste sono le ultime parole di Sammy Basso al mondo, prima di congedarsi da questa vita. L’ultimo atto di una vita considerata breve (28 anni), ma sufficiente per colmare due o forse tre delle nostre esistenze. Se “la felicità è un modo di vedere”, la vita di Sammy è stata la prova tangibile che si può vivere al massimo con il minimo essenziale. Si può fare tutto e di più, in breve tempo: basta volerlo!
L’atmosfera a Tezze sul Brenta, comunità di 10 mila anime a cavallo di due province, è già storia locale, regionale e nazionale. Quel funerale è già e resterà una memoria sociale. Sammy il piccolo, come il Piccolo Principe, ha spiccato il volo, non prima di aver dimostrato al mondo di prendersi cura di tutte le creature: dalla volpe alla rosa, dalla famiglia agli amici, dai sani agli ammalati, dagli scienziati ai pazienti (due di loro, uno di venti e uno di quindici anni, di Milano e Torino, erano presenti accanto ai genitori di Sammy). È davvero sconfinato il mondo in cui si è mosso quel Sammy che tutti abbiamo imparato a conoscere, anche senza averlo incontrato. In pochi anni era diventato “l’amico di tutti”.
Basta vedere cosa ha suscitato la notizia della sua dipartita. Eppure, non era una “star” e non si comportava da star. Era, semmai, una “matrioska”: ora scienziato, ora divulgatore, attore, scrittore, maratoneta e molto altro ancora. C’è sempre da chiedersi di quale Sammy vogliamo parlare! Tante facce di un unico diamante, ognuna capace di emettere o riflettere lucentezza a seconda dell’inclinazione che si vuol dare a quel Sammy, una matrioska umana. Lo si è capito subito dai vari interventi al suo funerale: dai compagni di classe, all’amico del cuore, agli sportivi, agli attori e cantanti, che si sono alternati sul palco-altare allestito nello spazio sportivo all’ombra della parrocchiale. Qui c’era tutto il variegato mondo che Sammy ha saputo compattare. Tutti uniti da quel sentimento di “affetto” che Sammy si era costruito. Dico affetto e mai pietà! Un affetto naturale che Sammy, “l’alieno” come gli piaceva definirsi, si era cucito addosso come conseguenza, e mai come causa, di quella malattia, la “progeria” di cui era affetto, alfiere e guerriero. «Io sono grato alla progeria», disse un giorno, «perché non sarei quello che sono senza di lei!». Sammy, da Tezze, era così diventato il simbolo di riscatto della sua stessa malattia.
Vi è quindi un prima e un dopo Sammy Basso, soprattutto per quei 140 pazienti (circa) nel mondo che soffrono di questa patologia. Sono coloro che per decenni hanno vissuto nell’ombra di una malattia sconosciuta ai più, che pareva senza speranza per assenza di ricerca. Troppo pochi e troppo fragili, confinati nell’assenza di speranza. Un’alienazione di cui Sammy si è fatto carico, portando luce nuova sul problema. Combattendo la malattia che era in lui, grazie agli studi e alla laurea, si è fatto ricercatore di se stesso, convinto che “soffrire di una malattia aiuta a conoscerla e combatterla”.
Ecco la “matrioska Sammy” che, in forma camaleontica, diventava scienziato qual era. Ma diventava anche brillante comunicatore e credibile testimone in convegni internazionali. C’era poi il personaggio delle ospitate televisive. E ancora, l’attore in performance teatrali. Il maratoneta, grazie agli amici che lo spingevano nella speciale carrozzina nelle tante marce sportive di cui era testimone. C’era poi il viaggiatore. Il burlone (con i suoi celebri scherzi). La sua poliedricità era un mix di vita e vite, fatta di sopravvivenza e volontà, ostinazione e visione, senza mai lasciarsi catturare dalla “pietà”. È stato capace di portare alla luce la sua malattia, a partire da quel nome impronunciabile di “progeria” di cui nessuno aveva sentito parlare prima. Sammy, e non “Semmy” come mi veniva spontaneo chiamarlo, era ciò che era in ogni suo momento o incontro. Una “normalità” la sua senza filtri e senza vergogna. Aveva accettato se stesso, facendosi accettare dagli altri e, per osmosi, creando in ognuno di noi un processo di accettazione di se stessi.
Ecco il laboratorio sociale che Sammy ha creato. Tutto questo era lì, concentrato su quel fazzoletto di terra che sembrava dilatato, dove si è consumato l’ultimo atto terreno della sua esistenza. “Sora nostra morte corporale” è arrivata come avrebbe voluto lui: dopo una serata in compagnia di amici per un matrimonio. Per niente inattesa. Ne avevamo parlato insieme, intimamente, con pudore e realismo: «So che arriverà all’improvviso – almeno così spero – e sarà come se qualcuno mi togliesse la spina!» furono le sue parole. Così è stato, quasi a voler soddisfare questa sua chiaroveggenza. All’improvviso se n’è andato, creando fin da subito un terremoto di emozioni e ricordi che ha inondato l’Italia e il mondo intero. Sammy era sì di Tezze, ma era un simbolo regionale, italiano, mondiale. Era un cittadino globale, al punto che l’ultimo suo messaggio che mi aveva inviato descriveva con ardore il suo recentissimo viaggio in Cina per fini scientifici e un’appendice turistica. In Cina era arrivato per abbattere l’ultimo tabù sui casi di progeria, per molti anni lì “censurati”.
Questo Sammy riusciva a fare. Non certo da solo, ma grazie a una corona di ricercatori internazionali che lui finanziava attraverso la sua Fondazione, con i proventi raccolti nelle tante serate in cui interveniva, percorrendo in lungo e largo l’Italia intera. Metteva la sua immagine, sapendo d’incarnare chi spesso non si vede. E sapeva che quel suo “mostrarsi” serviva ad alimentare quella ricerca a un passo dal successo. Un giorno mi confidò: «Tra qualche anno - tre o cinque -, sono convinto che annunceremo la cura per la progeria!» Parole rimaste sospese in attesa di conferma. È questo l’unico traguardo e rimpianto che il “Sammy-duracell”, come lo chiamavano affettuosamente gli amici, non ha potuto vedere e superare. Ma è solo questione di tempo, perché ormai il risultato è dato per scontato. E se diventerà realtà, parte sostanziale di quella cura futura sarà anche merito della capacità e volontà del piccolo uomo di Tezze. Dopo il suo funerale, restano ora le immagini iconiche di quel momento vissuto come un rito collettivo e nazionale. Un momento che si è fatto catechesi, anche grazie alla scelta felice del vescovo di Vicenza di lasciare spazio al testamento di Sammy, letto come omelia.
Un funerale voluto e pensato come una festa, sottolineato dalla bellezza dei canti intonati dal coro “I mendicanti di sogni”, che per anni è stato la culla dove Sammy ha coltivato la sua passione per il teatro. Una “festa” cui si sono presto adattate anche le quattromila persone presenti, richiamate a “vivere qui e ora, per il tempo che ci è stato dato”. “Tempo” che è stato l’amico e il nemico di sempre per Sammy, che lui è riuscito a trasformare in un alleato. Un ammonimento e uno sprone per tutti. Quasi una sfida lanciata alla “normalità”. Chissà se i tanti politici presenti di ogni ordine e grado faranno tesoro di questo messaggio consegnatogli da Sammy attraverso le parole del vescovo! Chissà se lo stuolo di preti concelebranti ha compreso che si può essere predicatori e testimoni di un credo genuino e credibile, quanto profondo e ampio, di cui Sammy si è fatto esempio fino all’ultimo suo atto. Lui che non faceva prediche, ma dava esempi. Che attraeva i più piccoli e parlava con i grandi. Si confrontava con le personalità mondiali, parlando allo stesso modo con chiunque lo avvicinasse. Francescano, più degli stessi francescani.
Resta ora una sfida “muta” che serpeggiava tra i presenti al suo funerale, fino a farsi parola nei social: sacralizzare la sua figura ed esempio. Quel richiamo alla “santità” che spaventa me che l’ho conosciuto, e immagino spaventasse anche lui. La tentazione di innalzare una figura esemplare con tutti i risvolti e deformazioni che conosciamo. Sammy non è stato un eroe. Non ha rincorso la fama, pur sapendo di essere diventato famoso. Se avesse sentito la parola “santità”, avrebbe risposto con la sua solita ironia: “I ze proprio fora questi!”. Il timore che qualcuno possa ora scalfire la sua “semplicità e genuinità” increspa l’oceano di emozioni che lui ha suscitato. Ma restano loro, papà Almerigo e mamma Laura, i custodi inflessibili della sua memoria. I garanti di quella inviolabile “francescanità” incarnata dal figlio. I guardiani contro il facile sensazionalismo post-mortem. Non si cada allora in questa tentazione “social-religiosa”. La “santità” sarebbe stretta a Sammy, perché il suo essere stato terreno tra le difficoltà è già la garanzia d’essere stato un “giusto”. Forse un “alieno” mandato da un altro mondo. O meglio, un amico di tutti che si lasciava fotografare a casa mia, su una poltrona con lo schienale rosso broccato, su cui era appuntata per caso una collana masai portata dall’Africa, che il destino ha voluto cadesse quel giorno proprio all’altezza della sua testa, come un’aureola con cui lui ha giocato. E dopo avergli chiesto se potevo fotografarlo, lui mi rispose: «Te si matto!». No, rispondo io oggi: se siamo diventati tutti più matti, è grazie proprio a te, amico Sammy, che ci hai nuovamente aperto gli occhi sulle verità della vita, anche quando tu li hai chiusi per sempre. Per questo, ogni aggiunta postuma alla sua vita sarebbe superflua: un’esistenza che è già stata piena di tutto.