Aiutarono i connazionali, per quattro eritrei ultima speranza in Cassazione. “Colpevoli di solidarietà”
L’accusa è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Domani la Cassazione deciderà sul ricorso, dopo la sentenza di appello che ha confermato le condanne. Rischiano fino a quattro anni di carcere. L’avvocata Massaiu: “Noi chiediamo l’annullamento della sentenza. All’inizio l’accusa era di associazione a delinquere ma è caduta, ora è rimasto solo il favoreggiamento che fa riferimento a un’ipotesi residuale. Non hanno lucrato, hanno solo aiutato amici e parenti”
“Non hanno lucrato su nessuno, hanno solo aiutato amici e parenti a Roma”. Giuseppina Massaiu è l’avvocata di quattro ragazzi eritrei che da sette anni sono sotto processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per loro l’ultima speranza è rappresentata dall’udienza di domani in Cassazione, che deciderà sul ricorso, dopo la sentenza di appello che ha confermato le condanne. Rischiano fino a quattro anni di carcere. “Noi chiediamo l’annullamento della sentenza. All’inizio l’accusa era di associazione a delinquere ma è caduta, ora è rimasto solo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che fa riferimento a un’ipotesi residuale. E cioè, in mancanza dell’ipotesi più grave, del fine di lucro, rimane la condanna per le persone che compiono atti diretti a favorire l’ingresso in Italia e altri paesi - spiega l’avvocata -. Ma in questo caso è illogico perché si esclude del tutto l’aiuto fine a se stesso di connazionali nei confronti di amici e parenti”. Alcuni hanno offerto un posto dove dormire, altri hanno pagato un biglietto per raggiungere Bologna o Ventimiglia. Esattamente come accaduto per gli attivisti del Baobab Experience, assolti il 3 maggio scorso perché il fatto non sussiste.
“In questi anni ci sono state diverse sentenze, nel caso dell’associazione Ospiti in arrivo è stato osservato che comprare un biglietto del treno per una famiglia curda non può essere considerato prezzo di profitto - aggiunge Massaiu -. Anche il Baobab ha avuto una sentenza di assoluzione in cui nel merito si è capito che non c’era dolo. Nel nostro caso si è ritenuto di continuare nell’accusa”.
La storia, come già raccontato da Redattore Sociale, inizia a Roma nel 2015 con lo sgombero della baraccopoli di Ponte Mammolo, un insediamento informale in cui vivevano persone provenienti da diversi paesi: eritrei, ucraini, sudamericani. Il borghetto, che sorgeva a via delle Messi d’Oro, era salito agli onori delle cronache, qualche mese prima, per una visita inaspettata di Papa Francesco. Negli anni, quel borgo fatto di baracche, noto come “Comunità della Pace”, era diventato la casa di tanti, che nell’impossibilità di pagare un affitto, si rifugiavano in una delle costruzioni in lamiera o cemento. Ma era anche un luogo di accoglienza dei tanti transitanti che passavano da Roma e lì facevano una breve sosta con l’obiettivo di raggiungere poi le altre città del nord Europa. A maggio le ruspe entrarono in azione, e in quei giorni si parlò di un’azione legata alle condizioni alloggiative. Oggi sappiamo che dietro l’operazione c’era anche l’inchiesta sul favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che metteva nel mirino alcuni luoghi simbolo dell’accoglienza romana, tra cui Ponte Mammolo.
Secondo l’accusa esisteva infatti una rete internazionale, che agiva a scopo di lucro, nella quale era inserita anche una cellula romana, costituita da un’associazione ben strutturata, con compiti e ruoli definiti e una precisa catena di comando. Tra i luoghi a disposizione della rete anche il palazzo di via Curtatone, adiacente piazza Indipendenza (sgomberato nel 2017) e quello in via Collatina. Gli eritrei sono stati imputati di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare e di partecipazione a reato associativo. L’associazione avrebbe avuto un profilo allarmante, perché strutturata a livello internazionale e operante dell'Africa fino in Italia: dalla tratta del mare alle città europee. Inoltre, la rete avrebbe operato in base alla hawala: un sistema di scambio di denaro. A capo dell’associazione criminale ci sarebbe stato Mered Medhaine, detto il Generale, ritenuto il responsabile della strage di Lampedusa del 2013 e sotto processo in Italia. A finire in tribunale, e in carcere però non è stato lui ma Medhanie Tesfamariam Berhe, per uno scambio di persona.
Gli eritrei della presunta cellula romana al processo di primo grado sono stati assolti dal reato associativo. Per due di loro sono cadute tutte le accuse, mentre altri 4 sono ancora a giudizio solo per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Nel processo diversi sono stati gli errori: dallo scambio di persona del “Generale” fino ad errori di traduzione nelle intercettazioni. Per esempio “Agaish” che in tigrino vuol dire “ospite”, “messaggero di Dio”, “colui che va accolto” è stato tradotto come “cliente” ed è il termine che ha dato nome all’intera inchiesta.