Vulnerabilità dopo la pandemia nelle società di tutto il mondo. Stessa vulnerabilità, ma risposte diverse
Una riflessione post-pandemica. Henk ten Have esplora le diseguaglianze emerse durante la pandemia e il ruolo della bioetica nel costruire una società più consapevole della propria fragilità
Affrontare la stessa tempesta, ma non nella stessa barca: così Henk ten Have, docente olandese di bioetica, di cui è uno dei massimi riferimenti, e autore del volume Vulnerabilità, una sfida per la bioetica, spiega tutta la fragilità della condizione umana per come è emersa durante la pandemia. Ten Have ha presentato il libro lo scorso 22 ottobre a Padova, in un dialogo promosso da Fondazione Lanza con i curatori dell’edizione italiana del saggio, don Renzo Pegoraro, cancelliere della Pontificia Accademia per la vita, e il prof. Leopoldo Sandonà che per la stessa Fondazione Lanza coordina il progetto di “Etica e medicina”.
Professore cosa ci insegna la vulnerabilità in questa stagione post-pandemica e come l’esperienza che abbiamo vissuto ha rinnovato la sfida per la bioetica?
«L’esperienza della pandemia ci ha fatto capire che tutti gli esseri umani sono vulnerabili perché tutti potrebbero essere contagiati. Non è però lo stesso per tutti nella stessa misura perché alcune persone, le più anziane così come i disabili e i malati cronici, hanno corso un maggior rischio di morire. Quindi, se da un lato si può dire che la pandemia è stata un’esperienza condivisa, come trovarsi nella stessa tempesta, non possiamo dire di essere stati però sulla stessa barca, perché esistono sempre differenze tra le singole persone. Ci si può proteggere da un pericolo ma mai completamente e mai tutti allo stesso modo, persino rimanendo in casa, anche perché qualcuno ha dovuto continuare a lavorare all’esterno. Un’altra lezione dalla pandemia è che i Paesi europei erano così focalizzati sulla prevenzione delle malattie che si sono semplicemente dimenticati di proteggere gli anziani nelle case di riposo. Nei Paesi Bassi, dove vivo, per i primi tempi l’attenzione è stata rivolta principalmente verso la riduzione del numero di persone in terapia intensiva e solo dopo tre, quattro mesi, si è scoperto che c’era un’enorme mortalità negli ospizi dove vivevano le persone anziane».
Superata l’emergenza pandemica, è emersa una serie di difficoltà generali nei sistemi sanitari e nell’assistenza. È il segnale di un passaggio da una vulnerabilità individuale a una sistemica?
«Sì, credo che molti Paesi stiano ancora affrontando gli effetti della pandemia, perché si sono concentrati così tanto sulle terapie intensive che tutti gli altri reparti sono stati trascurati: i malati cronici e quelli che necessitavano di un intervento hanno dovuto aspettare che il Covid fosse finito. Ancora oggi, almeno nei Paesi Bassi, ci sono liste d’attesa lunghissime per le persone che devono recuperare questo ritardo del sistema sanitario. Inoltre, il numero di addetti che lavorano nel settore è insufficiente, perché molti hanno lasciato il loro posto di lavoro generando carenze di personale oltreché di servizi. Non si è investito abbastanza nel creare reti di sicurezza per le persone che oggi si sentono più o meno abbandonate dal proprio governo: hanno la sensazione che i loro problemi non vengano riconosciuti, di essere lasciati esposti a ogni tipo di rischio. L’impressione è che i governi non stiano proteggendo le loro popolazione anche quando si tratta di problemi sociali e politici. Per questo i cittadini sono scontenti in generale della democrazia, del funzionamento della società, e ciò li rende estremisti nelle loro opinioni politiche».
Che ruolo può avere la religione nel ridurre la distanza rispetto a questioni bioetiche e di vulnerabilità? «Penso che la religione sia principalmente un discorso di significato: dobbiamo accettare di essere vulnerabili, ma anche che questa nostra caratteristica non è necessariamente qualcosa di negativo perché per superarla ci porta all’interazione con altre persone, esprimendo solidarietà e comunicando con gli altri. Non dovremmo, insomma, concentrarci solo su noi stessi e sulla nostra condizione, ma uscire nel mondo esterno e comunicare con gli altri, aiutandoli ad affrontare la loro vulnerabilità. Così come noi ci prendiamo cura degli anziani, gli anziani si prendono cura dei bambini: è una sorta di reciprocità che dà più significato alla vita, e penso che questa sia una delle idee che fioriscono in un contesto religioso».
Nella sua esperienza, quali sono le principali differenze e somiglianze tra l’Europa e gli Stati Uniti in termini di azioni anche politiche per ridurre le diseguaglianze e la vulnerabilità?
«Ravviso due principali differenze: la prima è che in Europa le persone sono più consapevoli della vulnerabilità e quindi più inclini a tollerarne un certo livello, mentre negli Stati Uniti le persone pensano di essere invulnerabili. All’estremo, per esempio, ci sono i miliardari che, in California, vogliono prolungare la propria vita e diventare immortali e questo, per la mentalità europea, è una pretesa quasi ridicola. La seconda differenza è che noi europei siamo più consapevoli del nostro essere individui sociali e non isolati: crediamo di dover prenderci cura l’uno dell’altro e creare condizioni che aiutino le persone a gestire la loro vulnerabilità. Pensiamo che i governi abbiano almeno l’obbligo di fornire delle reti di sicurezza, mentre negli Stati Uniti la sanità è una questione privata: sei tu a decidere della tua assicurazione sanitaria e se non la sottoscrivi è una tua scelta, salvo poi pagare e non avere accesso all’assistenza sanitaria quando ne hai bisogno. In Europa, invece, non ci piace l’idea che le persone non abbiano accesso alle cure solo perché non possono permettersele».