Teologia dal Mediterraneo. Don Mignozzi: “Vogliamo tornare a dare speranza dove oggi c’è morte”
Si stanno intraprendendo “piccoli passi” per “un fare teologia che abbandona ogni forma di neutralità, per prendere posizione, per schierarsi, per incarnarsi, per servire il Vangelo di Gesù e il suo Regno che avanza pur nell’opacità e nella drammaticità delle vicende della storia”, ci dice il preside della Facoltà Teologica Pugliese
Lavorare per una teologia che, dalle sponde del Mediterraneo, possa offrire un contributo per la generazione di percorsi di fraternità, condivisione e pace all’interno delle comunità credenti e in dialogo con ogni aggregazione sociale e ogni agenzia culturale. L’ultima tappa di questo cammino, intrapreso accogliendo le sollecitazioni di Papa Francesco nell’incontro alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione San Luigi, a giugno 2019, è rappresentata dal laboratorio di ricerca su “Intelligenza della fede e vissuti ecclesiali: quale sinergia possibile per un Mediterraneo di pace?”, promosso a giugno scorso a Molfetta, dalla Facoltà Teologica Pugliese insieme con la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Al termine della due giorni teologi e pastori hanno firmato un appello per un Mediterraneo di pace. Ne parliamo con don Vito Mignozzi, preside della Facoltà Teologica Pugliese.
Perché serve una sinergia tra teologia e vissuti ecclesiali?
Perché, se in genere ogni pensare teologico non può prescindere dal confronto serrato con la storia, molto di più una teologia che si definisce a partire dal Mediterraneo, cioè da un contesto ben definito, deve necessariamente poter entrare realmente in dialogo con i vissuti sociali, culturali, ecclesiali, riconoscendoli quale luogo teologico a partire dal quale sviluppare una intelligenza critica dell’esperienza della fede. Per noi è imprescindibile attraversare questo passaggio riconoscendo il contesto come caratterizzante non solo per i contenuti del fare teologia, ma anche per il suo stile.ù
Ci interessa, pertanto, che la teologia dal Mediterraneo abbia davvero il sapore di quel mare tra le terre, con tutto quello che la stessa collocazione geografica significa: culla di culture e di religioni, ponte tra popoli, crocevia di scambi e oggi, purtroppo, anche luogo di morte, essendo diventato un mare di stragi.
Vogliamo evitare un’idea generica di Mediterraneo, per restare in ascolto delle istanze che dalle rive di quel mare interpellano la nostra riflessione critica e, in qualche modo, la costringono ad una verifica circa la propria fedeltà ad una ermeneutica che sa far dialogare in modo fecondo la Parola di Dio con la storia degli uomini. Per tale ragione senza una sinergia con i vissuti ecclesiali sarebbe una teologia da laboratorio, autoreferenziale, inadatta al nostro tempo e alla missione specifica che dovrebbe caratterizzarla.
Avevate in mente di proporre un Manifesto, alla fine avete scritto un Appello per un Mediterraneo di pace…
Eravamo partiti con l’intento di produrre un Manifesto per una teologia dal Mediterraneo, ma i lavori, che sono stati estremamente fecondi, hanno richiesto ulteriore tempo per approdare ad una definizione più precisa di quelli che sono i contorni di questa teologia dal Mediterraneo, oltre che i tratti specifici del suo metodo. Allo stesso tempo, un primo frutto del lavoro compiuto è convogliato in un Appello, differente nello stile rispetto al Manifesto, ma che contiene comunque le acquisizioni, le convinzioni maturate nel confronto di questi giorni. Nello stesso tempo abbiamo assunto l’impegno di portare a termine nelle prossime settimane la redazione del Manifesto nella forma di un Documento programmatico, che rappresenterà il nostro contributo all’incontro dei vescovi del Mediterraneo che si terrà a Marsiglia, a settembre. In esso convergerà il lavoro realizzato dai soggetti che attorno al nostro tema hanno fatto rete; mi riferisco cioè alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, alla Facoltà Teologica Pugliese, al Gruppo di ricerca su “Il Mediterraneo come luogo teologico” e ad una delegazione dell’Institut catholique de la Mediterranée di Marsiglia.
Com’è nato l’Appello per un Mediterraneo di pace?
È nato nel contesto della riflessione dei teologi, durante il primo giorno. Eravamo un gruppo di teologi provenienti dalle istituzioni accademiche del Sud Italia, con una rappresentanza proveniente da Marsiglia e poi qualcuno da Beirut.
Facendo poi dell’Appello un motivo di confronto e di dialogo con i pastori il giorno successivo, è stato quasi spontaneo da parte loro il voler aderire a quanto avevamo condiviso. E quindi l’Appello porta anche la firma dei vescovi intervenuti. È stata una scelta che ci ha molto incoraggiato a proseguire in questa direzione.
Andando ai contenuti dell’Appello, cosa ci può dire?
Nell’Appello si sottolinea come, dalle sponde del Mediterraneo, sentiamo il bisogno di una teologia che, con uno sguardo di speranza, assuma fino in fondo un’istanza profetica e faccia eco al grido di dolore e alle richieste di giustizia che giungono dai tanti naufraghi della storia. Dunque,
una teologia che si lasci provocare realmente dai drammi, dalle stragi, dalle tragedie che ultimamente il Mediterraneo sta raccontando e quindi, in qualche modo, provi a leggere criticamente anche, alla luce del Vangelo, il mondo.
Vuole essere una teologia umile che si interroga rigorosamente sui fondamenti e sulle condizioni di possibilità per percorsi di una fraternità possibile, capaci di riagganciare legami, reti tra i popoli, lì dove oggi regna la morte. Possono i teologi di diverse provenienze tessere uno stile di fraternità possibile? Questa è la prima sottolineatura che l’appello vuole rilanciare. Ci piace lavorare per una teologia capace di attraversare le culture, non più soltanto eurocentrata, attenta a riconoscere l’altro con tutte le differenze, senza temere le contaminazioni possibili. Noi riconosciamo come il dialogo sia davvero il luogo in cui Dio si rivela. E, ancora, la nostra teologia deve avere il coraggio di chiedere perdono per le chiusure che abbiamo giustificato addirittura in nome della fede, per conflitti determinati da ragioni religiose, ma anche per le volte in cui è mancato il coraggio di denunciare le ingiustizie.
Ci impegniamo in una teologia che torni a dare speranza dove oggi c’è morte, una speranza che non nasce da un mero e gratuito ottimismo, ma che è radicata nel mistero della Pasqua di cui anche la teologia si fa interprete e annunciatrice.
Come prosegue ora il vostro cammino?
Sugli ulteriori passi del cammino stiamo ragionando: una prima idea è quella di puntualizzare quanto più possibile quale sia il metodo di chi fa teologia dal Mediterraneo. Una volta definito il metodo, un passo successivo potrebbe essere indagare alcuni temi decisivi legati al Mediterraneo e sui quali la teologia deve tentare di dire una parola. Ci siamo anche detti che è opportuno creare spazi istituzionali nelle nostre Facoltà per tenere viva la formazione su questi temi, magari proprio nei cicli di specializzazione. Un’attenzione di questo genere potrebbe generare anche un maggiore confronto tra gli studenti che frequentano i nostri centri teologici.
Insomma, piccoli passi di un fare teologia che abbandona ogni forma di neutralità, per prendere posizione, per schierarsi, per incarnarsi, per servire il Vangelo di Gesù e il suo Regno che avanza pur nell’opacità e nella drammaticità delle vicende della storia.