Strage terroristica in Iran: l’incendio mediorientale tra ipotesi e timori
In corso il tentativo di decifrare la matrice, non rivendicata, dell’operazione. Laddove si sostenesse la pista israeliana, si dovrebbe scegliere tra più ipotesi. L’interesse a gettare l’Iran nella mischia potrebbe rimandare invece ad altri avversari del regime.
Iran, 3 gennaio, ore 15 locali: due ordini, con un intervallo di 15 minuti, deflagrano nel Cimitero dei Martiri di Kerman facendo strage tra la folla (il secondo studiatamente anche tra i soccorritori) radunata per il quarto anniversario dall’uccisione a opera di un drone statunitense del generale Soleimani, capo della Nyru-ye Quds, unità delle Guardie della Rivoluzione incaricata del coordinamento della galassia sciita fuori confine. Il bilancio (provvisorio) conta un centinaio di morti. È l’atto terroristico più grave mai subito dalla Repubblica islamica.
Le autorità annunciano indagini per punire distruttivamente i responsabili, profilati sulle prime come potenze arroganti, mandanti di terroristi mercenari. L’allusione è perspicua, sicché suona pleonastica l’esternazione di un consigliere del presidente Raisi, che senza giri di parole accusa Israele e Usa.
Non serve molto per capire i rischi di allargamento dell’incendio mediorientale, al culmine dell’ultima sequenza di colpi messi a segno contro i nemici di Tel Aviv. A Natale un raid ha ucciso il generale Mousavi, comandante dei Pasdaran iraniani in Siria e responsabile dei rifornimenti alle forze pro-Assad, dotato di status diplomatico. Ai suoi funerali, l’ayatollah Khamenei ha promesso una punizione a tempo debito, anticipata con l’esecuzione di cinque detenuti accusati di spionaggio per conto del Mossad. Il 2 gennaio un raid su un sobborgo di Beirut ha colpito al-Arouri, vice capo dell’ufficio politico di Hamas, coinvolto nei negoziati per lo scambio di prigionieri. Per tale ragione, l’Egitto ha sospeso la sua mediazione al fianco del Qatar, mentre il leader di Hezbollah si è detto pronto alla guerra totale.
L’attentato di ieri coglie l’Iran impegnato a premere su Israele mediante i suoi proxy in Libano, Iraq, Siria e Yemen, continuando al contempo a coltivare i canali di normalizzazione con le petrolmonarchie arabe. E attento a tenere il conflitto al di sotto della soglia escalativa che conduce allo scontro frontale con Israele e Usa. Vale a dire con la cautela di non superare la linea rossa, che l’Iran ha interpretato astenendosi dall’attaccare direttamente Israele, dal canto suo intimando ai nemici di non varcare il limite reciproco, ossia di non trovarsi colpito sul proprio territorio.
Ovvio il tentativo di decifrare la matrice, non rivendicata, dell’operazione. Laddove si sostenesse la pista israeliana, si dovrebbe scegliere tra più ipotesi.
Una attiene all’intenzione di trascinare l’Iran in guerra, provocando una risposta che sinora, nonostante le minacce dei giorni scorsi, non si è materializzata. Ma ciò vorrebbe dire azzardare l’innesco di una reazione a catena dagli esiti imprevedibili. Oltretutto non voluta dagli Usa, in un frangente politico (interno e internazionale) altamente critico e per nulla esaltante per la Casa Bianca. L’accresciuta presenza militare nell’area disposta da Washington si presta sì a scudo di Israele, ma può essere letta anche come deterrente palindromo, utile anche a trattenere il protetto dallo scatenare l’imponderabile oltre la Palestina.
Anche alla luce dei suggerimenti espressi nei giorni scorsi dall’ex premier Bennett sulle colonne del Wall Street Journal, sarebbe più plausibile immaginare la strada della destabilizzazione interna della Repubblica islamica, indicata come regista di tutti i nemici di Israele. In questo caso, la volontà reciproca di scongiurare il conflitto diretto porterebbe a lasciare deliberatamente ignota la supposta matrice israeliana.
Una terza ipotesi porterebbe all’intento di indurre Teheran a rivedere l’interpretazione della propria linea rossa, appalesando cioè l’intolleranza per il sostegno ai proxy che lanciano missili e droni: evidentemente non ancora recepita dall’Iran, a giudicare dalla sua fregata che da tre giorni batte il Mar Rosso mentre le forze della Prosperity Guardian proteggono dagli houthi yemeniti i cargo destinati a Israele. Ma, pur confidando nella predittività strategica israeliana, ciò non esclude che la comunicazione del messaggio mediante un così grave atto terroristico possa generare effetti incontrollabili.
Più in generale, in fin dei conti, considerando che lo scempio di Gaza procede tutto sommato indisturbato nell’inerzia generale – fatta eccezione per le azioni dei menzionati proxy – non è così probabile che Israele calcoli conveniente avventurarsi in scenari a dir poco ingestibili, peraltro infliggendosi un ulteriore danno d’immagine.
Seguendo la logica del “cui prodest”, l’interesse a gettare l’Iran nella mischia potrebbe rimandare invece ad altri avversari del regime:
Si tratta di cellule sopravviventi dell’Isis iracheno o del ramo di Khorasan, oppure gruppi quaedisti attivi in Siria contro Assad. O, ancora, nemici intestini, come i sunniti del Jeish al-Adl, che fondono l’odio jihadista per gli infedeli sciiti con il separatismo etnonazionalistico del Belucistan – peraltro adusi ad azioni terroristiche (l’ultima il mese scorso) contro uomini e simboli delle Guardie della Rivoluzione.
Le congetture ora possono basarsi, a spanne, sulle proiezioni logiche riferite ad attori razionali tipizzati per astrazione, supponendo che ogni schieramento sia internamente sotto univoco controllo. Quale che sia la spiegazione più plausibile, la strage di ieri di per sé rovescia altro materiale infiammabile attorno al fuoco che già divampa. Se possibile, rendendo viepiù urgente un coraggioso uso della ragione politica da parte della comunità internazionale, prima che il rogo diventi indomabile su vasta scala.
Giuseppe Casale*
docente, Pontificia Università Lateranense