San Francesco di Sales. Per fare buon giornalismo, bisogna essere uomini o donne buoni. L'editoriale di Paolo Ruffini
Con il suo messaggio Papa Francesco ci invita a guardare dentro il nostro cuore e ci ammonisce a tornare alla radice della vocazione del giornalista e del comunicatore: cercare la verità con la saggezza del cuore puro, senza pregiudizi; fare i conti con la propria coscienza, saper discernere nella confusione, nelle contraddizioni, nel chiacchiericcio, la verità oltre l’apparenza. E condividerla, per farla crescere nel dialogo, nella relazione
C’è una beatitudine che spiega bene il Messaggio di Papa Francesco per questa Giornata mondiale delle comunicazioni. Che ci dice – con le parole di Gesù – perché non basta andare, non basta vedere, non basta ascoltare; se non lo facciamo con il cuore in mano.
“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. In un tempo smaliziato, che esalta la durezza come mezzo per scalfire la verità, il Papa ci dice che la via è un’altra; se davvero vogliamo capire. Ed è una via semplice. Che nella società della tecnica non ha nulla a che fare con la tecnica. Che nella società dell’apparenza non ha nulla a che fare con la forma, perché ha a che fare con la sostanza.
Solo i puri di cuore possono vedere la verità nell’amore in cui tutto sussiste.
Solo chi ama bene può dire bene.
Sembrerebbe una via che non riguarda i professionisti. Sembrerebbe… se non fosse che il patrono dei giornalisti, San Francesco di Sales, fu convinto che “basta amare bene per dire bene”. E se non fosse che uno dei più grandi giornalisti del tempo recente raccomandava anche lui la stessa cosa: l’empatia, quel comune sentire che nasce dalla sintonia dei cuori, dall’empatia, senza la quale è impossibile sentire davvero.
Per fare buon giornalismo – diceva questo straordinario reporter – si deve essere innanzitutto uomini buoni, o donne buone: buoni esseri umani.
“Le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti. Solo se si è una buona persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà, le loro tragedie. E diventare immediatamente, fin dal primo momento, parte del loro destino”.
Mi è capitato spesso di citare questa riflessione di Kapuscinski, perché smentisce clamorosamente la falsa verità secondo la quale un buon giornalista per fare bene il suo mestiere non dovrebbe guardare in faccia nessuno. Perché ci dice senza mezzi termini che non guardando in faccia nessuno, si rischia di rimanere prigionieri dei propri teoremi, dei propri pregiudizi, del proprio cuore malato; si sfugge dalle proprie responsabilità, si perde la possibilità stessa di verificare.
Scriveva molti anni fa il cardinale Martini, immaginando la deriva che stava prendendo questo modo senza cuore di intendere l’informazione, che tutto nasce dalla volontà di “suscitare sensazioni forti ed eccitanti per ‘vendere’ meglio e più di altri le informazioni”: “Puntando sul sensazionale, calcando sui particolari che suscitano attrazione, disgusto, ribrezzo, pietà – affermava – si genera una inflazione dei sentimenti e nello stesso tempo un accresciuto bisogno di emozioni sempre più elettrizzanti”.
Ma la cosa – commentava – diviene più preoccupante quando la “cassa di risonanza” appare legata a interessi forti e occulti.
Per questo – credo – con il suo messaggio Papa Francesco ci invita a guardare dentro il nostro cuore e ci ammonisce a tornare alla radice della vocazione del giornalista e del comunicatore: cercare la verità con la saggezza del cuore puro, senza pregiudizi; fare i conti con la propria coscienza, saper discernere nella confusione, nelle contraddizioni, nel chiacchiericcio, la verità oltre l’apparenza. E condividerla, per farla crescere nel dialogo, nella relazione.
Paolo Ruffini