Ragazzi autori di reato, vite di giovani per cui si poteva fare di più
Si sono incontrati su un gruppo Facebook dedicato a madri e padri adottivi, ma poi ne hanno creato uno a parte per parlare delle loro difficoltà genitoriali: “I nostri figli hanno problemi di comportamento, hanno commesso reati o manifestano disturbi psichiatrici. E noi ci sentiamo sempre giudicati”
Solitudine. Ma anche senso di impotenza e tanta rabbia. Qualche volta disperazione. Potrebbero essere queste le parole chiave per descrivere i sentimenti che accomunano i quasi 110 genitori provenienti da tutta la Penisola, che fanno parte del gruppo Facebook “Mamme e Papà Adottivi Coraggiosi”, nato nel 2017 dall’incontro in un precedente gruppo dedicato alle famiglie unite dall’esperienza dell’adozione. “Abbiamo creato un gruppo a parte perché non ci sentivamo compresi e, talvolta, ci sentivamo perfino giudicati – spiega la fondatrice del gruppo Mariagrazia La Rosa –. Eravamo genitori in difficoltà, con esperienze di crisi in corso o alle spalle: i nostri figli hanno problemi di comportamento, hanno commesso reati o manifestano disturbi psichiatrici. Quasi tutti sono seguiti dai servizi per la salute mentale e la metà di essi sono o sono passati per le comunità di accoglienza: educative, terapeutiche o destinate ai ragazzi provenienti dall’area penale. Ma attenzione – precisa: – non tutti i ragazzi adottati presentano situazioni di devianza e il passaggio in comunità, anche quando è proposto dalle famiglie, non significa affatto il fallimento dell’adozione. Anzi, durante la permanenza in comunità il legame con i genitori generalmente si rafforza e quasi tutti i nostri ragazzi sono tornati in famiglia al termine del periodo di allontanamento, di cura, di messa alla prova o alla fine delle misure alternative alla detenzione”. Ma cosa si potrebbe fare di più per i ragazzi e i loro genitori? “Le famiglie andrebbero seguite anche nel post adozione e in maniera mirata, con i servizi sociali a fare da regia – afferma Mariagrazia –. I servizi sociali dovrebbero avere un atteggiamento meno giudicante nei confronti delle famiglie e più proattivo. Quello che manca è l’intervento prima che scoppi la crisi, una collaborazione maggiore tra i vari servizi del territorio e un’operazione di coordinamento che faccia sentire le famiglie meno sole”.
“Non tutti i ragazzi adottati presentano situazioni di devianza e il passaggio in comunità, anche quando è proposto dalle famiglie, non significa affatto il fallimento dell’adozione”
Claudio, quando la comunità diventa un’ancora di salvezza
Anna è una mamma adottiva disperata, per citare il primo dei due libri che Mariagrazia Larosa ha scritto per le edizioni Book Sprint “M.A.D. Mamme adottive disperate” a cui ha fatto seguito “M.A.C. Mamme adottive coraggiose”. Suo figlio Claudio (nome di fantasia) è passato per la comunità, traendone dei benefici, almeno in via temporanea. Claudio oggi ha 25 anni, è arrivato in famiglia a 9 anni e mezzo e fino ai 14 anni fila tutto liscio. Poi la crisi, fino a che a 16 anni è stato collocato in una comunità per ragazzi che hanno in corso procedimenti penali, a una cinquantina di chilometri dalla città dove viveva con la sua famiglia. In comunità è rimasto per circa 2 anni e mezzo. “Aveva 4 procedimenti penali in corso: sono stata proprio io che l’ho denunciato 3 volte per maltrattamenti nei miei confronti – racconta Anna –. Ma la comunità gli ha fatto un gran bene: in quel periodo andava a scuola, era più motivato e, soprattutto, ha potuto finalmente seguire un progetto che funzionava davvero”. Una volta a casa, però, i progressi ottenuti in comunità sono andati in parte perduti. Certo non ci sono più vetri rotti in giro e Claudio ha smesso di non tornare a casa la notte. Ma non studia e non lavora: è neet come tanti giovani della sua età. “Per fortuna non ha fatto la brutta fine che hanno fatto alcuni amici che frequentava prima della messa alla prova – commenta Anna –. Se non ci fosse stata la comunità questa storia sarebbe probabilmente finita male”.
“La comunità gli ha fatto un gran bene: in quel periodo andava a scuola, era più motivato e, soprattutto, ha potuto finalmente seguire un progetto che funzionava davvero”
Fabio e Giovanni, due ragazzi su cui si poteva lavorare meglio
La comunità e i servizi sociali non hanno aiutato, invece, Fabio e Giovanni. Anzi, stando al padre Stefano, si è trattato di un’occasione perduta. I nomi sono di fantasia, ma le loro storie sono vere. Stefano e sua moglie hanno cominciato il percorso per l’adozione a 40 anni passati, ma hanno dovuto attendere altri 3 anni per portare a casa due fratelli dall’Ucraina: Fabio di 9 e Giovanni di 7 anni. “Era il 2011 quando sono arrivati in Puglia, dove tuttora vivono. Sono stati 12 anni intensi e difficilissimi, costellati di gioie e dolori”, racconta Stefano. All’inizio i ragazzi sono socievoli e sembrano contenti di essere stati adottati, ma dopo un po’ cominciano problemi di tutti i tipi. “Non ci hanno detto che avevano subito ripetuti traumi di abbandono: avevano 3 anni e 1, quando va via la madre, poi il padre, poi il distacco dalla nonna, ultimo salvagente. Non sapevamo nulla e così già alle prime difficoltà ci siamo trovati impreparati”. Di questi due figli Stefano e sua moglie sanno poco e niente, ci vuole tempo per ricostruire la vita che hanno fatto prima di incontrarli. Col tempo ricostruiscono che i due bambini hanno vissuto l’ultimo periodo (a 5 e a 7 anni) per strada, prima di farsi beccare dalla polizia “come i tipici ninos de rua brasiliani” e poi portare in un istituto. Ma la strada è stata la loro maestra di vita. “Andavano in giro da soli tutto il giorno, cercando cibo, rubando qua e là. L’essere riusciti a sopravvivere ha dato loro una grande sicurezza, pensavano di poter fare tutto da soli”.
“Sono stati 12 anni intensi e difficilissimi, costellati di gioie e dolori”
Anche in Italia continuano a rubare, qualche volta è un gioco a un amichetto, poi un cellulare e un ipod, infine 1.200 euro alla nonna. Stefano e la moglie sono sconcertati, non sanno che pesci prendere. Si sentono frustrati. Con le buone non si ottiene nulla, ma anche le punizioni non sembrano funzionare. “Il più grande era totalmente anaffettivo, si era sentito tradito dalla madre che lo aveva abbandonato da piccolo e allora ha trasferito il rancore nei nostri confronti. Giovanni, il piccolo, è stato sempre di intelligenza brillante e fantasiosa, è un grande disegnatore, ha una forte inventiva, ma non ha il controllo della rabbia, non potevamo immaginare quanto rancore avesse accumulato nei primi 7 anni di una vita costellata da maltrattamenti e privazioni. Per fortuna se la prende con le cose e non si sfoga contro le persone. Il problema è che tutto questo abbiamo dovuto scoprirlo da soli, non abbiamo avuto neppure la possibilità di attrezzarci per tempo prima che i problemi pregressi si intrecciassero alle crisi dell’adolescenza. Nessuno che ci spiegasse che il nostro modello di vita borghese, ricco di viaggi, regali, attenzioni, premure verso i bambini, fosse distante dal loro vissuto e, paradossalmente, controproducente”. Stefano e sua moglie non possono stare tranquilli, presto capiscono che il grande spaccia nel suo giro di amici, mentre il piccolo ogni notte scappa di nascosto dalla finestra della camera da letto. “Frequentava il giro del quartiere più malfamato della città, dove si davano appuntamento i figli dei mafiosi”.
A 18 anni Fabio, il maggiore, va a vivere da solo, poi torna a casa alcuni mesi per via del lockdown, ma presto ricominciano le discussioni, i problemi di droga, un’udienza al Tribunale dei Minorenni in cui viene coinvolto persino Giovanni, per consumo e detenzione di droga, poi archiviata. Fino a che, dopo una rapina con un coltello, viene arrestato in flagranza di reato. “Grazie alla difesa di un bravo penalista dopo 2 mesi è uscito dal carcere con una condanna a 2 anni e mezzo non scontata, grazie alla libertà condizionale”. Mentre il fratello è in carcere, il piccolo si dispera e comincia a fare il matto. “Quando minaccia di aggredirmi con un coltello, terrorizzato, scappo dai Carabinieri vicino casa a denunciarlo con l’intento di farlo seguire dai servizi sociali comunali – racconta il padre –. Formulo la precisa richiesta di farlo andare in una comunità solo diurna, dove sarebbe stato lontano dall’ambiente che frequentava, svolgendo attività utili al suo recupero. Il risultato è che per una sciagurata scelta dei servizi sociali è stato rinchiuso in una comunità residenziale per un anno e mezzo. Nessun ritorno a casa (tranne Natale e Pasqua) e alla fine abbiamo capito che gli hanno soltanto fatto perdere tempo: nessun lavoro psicologico è stato fatto sul ragazzo, non hanno neppure provato a lavorare sul controllo della rabbia e neanche sono stati capaci di fargli seguire la Dad. Alla fine è stato bocciato”.
Oggi Fabio e Giovanni vivono insieme, non hanno raggiunto il diploma e fanno i camerieri. Il giorno in cui abbiamo programmato di sentirci telefonicamente, Stefano rimanda l’appuntamento perché è arrivato a trovarlo il figlio minore e non ha tempo per l’intervista. “Oggi non siamo più una famiglia, ma due genitori che sopravvivono come possono. Fabio vive per conto proprio a 3 chilometri da noi, Giovanni va e viene. I nostri figli vivono le difficoltà del transito verso l’età adulta, perché in questi anni hanno studiato poco, e letto anche meno. Resta l’amarezza che, nonostante i due bambini avessero dei traumi infantili e affettivi di abbandono e il conseguente disagio interiore, erano due ragazzi su cui si sarebbe potuto lavorare molto meglio”.
Marco e il diritto (mancato) alle cure psichiatriche
Anche Maria condivide con Stefano l’amarezza di essere lasciata sola come madre. L’amarezza che il suo Marco è stato lasciato solo. Marco (nome di fantasia) è stato adottato da neonato. “Ma fin da piccolo ha presentato dei problemi, che più tardi si sono aggravati fino a sfociare nella diagnosi di disturbo borderline di personalità – racconta Maria –. Il cuore del problema non è l’adozione, ma che nel caso di Marco, come in tanti altri, giustizia e salute mentale creano una miscela esplosiva”. Nel corso degli ultimi, la vita di Marco è stata al centro di vicende giudiziarie, perché gli atti che compie in conseguenza del disturbo si configurano come reato e all’età di 23 anni ha già 20 procedimenti penali a carico. “Nei processi è stata sempre riconosciuta la seminfermità mentale, con conseguente sconto di pena, ma i reati restano reati. Non voglio però che ci siano equivoci – ci tiene a precisare la madre –: non mi interessa ottenere sconti né assoluzioni, voglio solo che mio figlio sia curato, che venga seriamente preso in carico dai servizi per la salute mentale”. Sei mesi fa Marco è entrato nel carcere milanese di Bollate, dove sta scontando una pena di 2 anni e 8 mesi. “Ma la sua vera condanna non è tanto il carcere quanto il fatto di non avere un progetto terapeutico. La legge stabilisce che nei casi come il suo entro 90 giorni debba essere elaborato un progetto terapeutico. Al momento sappiamo solo che di tanto in tanto vede una psicologa e che ha già girato 7 reparti, perché ovunque va crea problemi. Il rapporto tra giustizia e psichiatria non funziona per niente: crea solo una porta girevole per cui si entra e si esce dal carcere”.
“Non mi interessa ottenere sconti né assoluzioni, voglio solo che mio figlio sia curato, che venga seriamente preso in carico dai servizi per la salute mentale”
Da minorenne Marco ha trascorso 1 anno in 3 diverse comunità, 2 mesi nell’Istituto penale minorile) di Bologna e 1 anno al Beccaria, l’Ipm di Milano. Rendendosi conto della presenza di un problema psichiatrico i giudici avevano optato per la comunità, ma qui il ragazzo attua comportamenti distruttivi e disturbanti. “Dicevano che non fosse compatibile con altri ospiti e cercavano di scaricarlo – racconta la mamma –. Lo sedavano completamente, usando gli psicofarmaci come strumento di contenzione chimica. In una comunità lo hanno sedato per 9 mesi, è stato il periodo peggiore, molto meglio il carcere, io piangevo ogni volta che venivo via”. È al Beccaria che Marco trova finalmente un po’ di pace. Ed è qui che viene concordato un progetto in semilibertà, per cui quasi ogni giorno va all’Ospedale San Raffaele dove si trova un Centro per il disturbo borderline di personalità. È la famiglia a pagare le prestazioni, “ma meglio spendere soldi per le cure che per gli avvocati, visto che ogni processo costa dai 5 agli 8mila euro”, dice Maria. Quando, però, 4 mesi più tardi arriva il fine pena e Marco esce dal carcere, non ce la fa. “A volte cambiava idea mentre stava andando in ospedale, e così l’intero percorso si è sfilacciato – ricorda Maria – e ha ricominciato la vita di prima, inclusi ogni sorta di danneggiamento, distruzione e aggressione. L’articolo 32 della Costituzione dice che tutti abbiamo diritto alle cure, ma che nessuno può essere obbligato a curarsi. Marco vorrebbe curarsi, ma non ci riesce. Lui non rifiuta le cure, ha solo difficoltà ad aderirvi”. Anche Marco è un ragazzo per cui il mondo adulto potrebbe fare di più.
Per avere info sul Gruppo Facebook “Mamme e Papà Adottivi Coraggiosi” scrivere a: mamme.mac@gmail.com
Antonella Patete