Natale: fratel Semeraro, “ci spinge a chiederci a che punto è il nostro cammino di umanità”
Un Natale "molto più vero di tanti altri". Quella che fratel MichaelDavide Semeraro offre al Sir è una lettura controcorrente della Solennità che ci apprestiamo a vivere, in un periodo che il Censis ha definito "incattivito" per l'Italia. "Il Natale ci spinge a chiederci a che punto è il nostro cammino di umanità", sostiene il monaco, che spiega tre livelli della "compassione", esorta a fare "uno screening delle nostre paure animali" e chiede di "essere intelligenza, in un momento in cui le intelligenze vengono offuscate"
“La situazione attuale è grave, ma non è disperata: la luce del Natale viene proprio a rischiarare le tenebre”. Ne è convinto fratel MichelDavide Semeraro, monaco benedettino, che partendo dagli ultimi dati Censis invita a “recuperare il carattere di avvenimento del Natale, per capire come anche una situazione oscura, buia, incattivita può diventare l’occasione per vivere un vero Natale, come credenti e come uomini”.
Da “rancorosi” a “incattiviti”: così il Censis fotografa gli italiani. Cosa può significare, in questo contesto, prepararsi a vivere il Natale?
Ritrovare il Natale evangelicamente autentico, non prima di tutto dal punto di vista morale e spirituale, ma direi storico. Se prendiamo in mano i Vangeli, soprattutto quello di Luca, ci accorgiamo che quando si racconta la nascita di Gesù si fa riferimento ad un contesto non molto diverso da quello che il Censis fotografa. Si mettono in scena, infatti, tutte le grandi potenze dell’epoca, e lo scenario è abbastanza inquietante. Tiberio, Augusto, Erode, coltivano ciascuno il loro piccolo impero, e i poveri sono costretti a lasciare la loro terra per andare a registrarsi. Gesù nasce a Betlemme e non c’è posto per lui. Letto così, il Natale di quest’anno è molto più vero di tanti altri natali. Per i credenti, può essere l’occasione di chiedersi quanto veramente crediamo nell’incarnazione del Verbo, che non è una chimera, un pensiero, un’idea, ma un fatto, un evento che è accaduto in un contesto straordinario. Il Verbo si fa carne e chiede ai pastori di fargli un po’ di posto.
Il canto degli angeli – “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” – è per tutti gli uomini e le donne un invito a far sì che questo Bambino da accogliere sproni ciascuno a dare il meglio di sé. Dobbiamo chiederci quanto siamo disposti ad avere un po’ più di compassione: il Natale ci spinge a chiederci a che punto è il nostro cammino di umanità.
Nel rapporto Censis emergono anche i “muri” che gli italiani tendono ad erigere verso chi è diverso da noi, a partire dai migranti. Il Papa, invece, non passa giorno in cui non richiami all’accoglienza.
Il Natale ci obbliga ad avere compassione persino di chi non ha compassione.
Di fatto, la sfida è non solo ad avere compassione di chi ha bisogno di compassione: è già molto, ma il livello di umanità rivelata da Gesù reclama di avere compassione anche di Erode, che per paura di perdere ciò che ha conquistato arriva fino ad uccidere e ad eliminare dei bambini. Avere compassione di chi non ha compassione esige, tuttavia, il non farsi contaminare dalla paura. Nel presepe ci sono i pastori ma anche i Magi: non sono poveri, ma uomini che pur essendo potenti e ricchi non si lasciano contaminare dalla paura dei potenti della terra e usano le loro possibilità per condividere. C’è, infine, un terzo livello di compassione, rappresentato da altre due figure del presepe: il bue e l’asinello, simboli di quell’umanità basica, quasi animale, che condividiamo con tutti gli altri esseri viventi.
Ci ricordano la necessità di fare lo screening delle nostre paure animali, per evitare che un giorno possano giocarci brutti scherzi.
La paura che genera tutte le altre paure è la paura di morire, e la nostra reazione è quella di sopravvivere a tutti i costi. L’ansia di sopravvivenza è l’anticamera di una vita inautentica, non compatibile con un buon livello di umanità. È importante, allora, fare questo screening sull’animalità, per capire quanto tendiamo verso il basso o quanto invece siamo consapevoli che vivere non è sopravvivere, ma condividere la vita.
L’Italia, in sintesi, è un Paese “in crisi di futuro”, dove l’incertezza economica, la precarietà, un panorama politico “urlato” e in deficit di ascolto alimentano tensioni e paure. Di quale antidoto c’è più bisogno?
Abbiamo un grande dovere di intelligenza. Nel raccontare il Natale, Luca ci parla dei pastori, Matteo dei Magi. Giovanni, invece, non ci racconta come nasce Gesù, ma scrive un prologo che è una riflessione teologica e metastorica, che è un appello all’intelligenza. Non si chiede, infatti, solo per chi, ma perché il Verbo si è fatto carne: per portarci la luce della grazia, che è l’intelligenza del reale illuminata da una ragione che guarda oltre la paura e i bisogni immediati. Che si fa scrupolo di essere intelligenza, in un momento in cui le intelligenze vengono offuscate: non si parla più, si grida.
In un Natale in cui c’è un disturbo di ascolto, l’intelligenza che ci viene richiesta esige il silenzio, la capacità di fare un minuto vero di silenzio interiore per chiederci dove stiamo andando e cosa vedo di fronte a me.
Quando non si è intelligenti, si vede solo il male, e “il male radica dove l’amore non basta”, come scrive Herman Hesse. L’intelligenza, invece, ci spinge a tirare fuori quel poco che abbiamo e a metterlo in comune, senza lasciare che altri pensino al nostro posto. Nel presepe abbiamo i pastori e i Magi, i sapienti che leggono nelle stelle e si mettono in cammino.
Senza intelligenza, le speranze non esistono, o si rivelano speranze che deludono.
Si è appena concluso il Sinodo dei giovani, al termine del quale Papa Francesco ha chiesto a tutta la Chiesa più capacità di ascolto. Sappiamo annunciare loro il messaggio di gioia e di liberazione del Natale?
Il grosso problema di noi adulti è che non guardiamo i giovani come realtà umana, ma ci proiettiamo nei giovani, e così rischiamo di rendere ancora più pesante il fardello della loro paura. Non riusciamo a credere in nuovi cammini. Invece di essere adulti che confidano nella verità dei giovani, proviamo invidia verso di loro e togliamo ai giovani le loro vere possibilità, il loro spazio vitale. Il Natale è anche fare spazio ai giovani, accettare che siano diversi da noi, credere nella loro speranza. Hanno bisogno di un’iniezione di fiducia.