Minori esposti, web e privacy. La questione dei baby influencer non è affatto facile da sbrogliare

Come non porsi domande di carattere etico e legale sulla tutela dell'immagine, della privacy e dei diritti di questi minori non ancora consapevoli delle proprie azioni?

Minori esposti, web e privacy. La questione dei baby influencer non è affatto facile da sbrogliare

Mentre i cosiddetti baby influencer stanno colonizzando i social media, anche l’Italia – dopo la Francia – si sta muovendo per arginare il fenomeno dello sharenting, ovvero della sovraesposizione di immagini e filmati di minori in rete.

Un largo fronte parlamentare, infatti, sta elaborando nuove normative per la tutela di bambini, preadolescenti e adolescenti nella dimensione digitale. Le proposte di legge chiedono verifiche più serie da parte delle piattaforme online rispetto all’età degli utenti e divieto di concludere contratti con minori di sedici anni. Riguardo il proliferare dei baby influencer, l’idea è quella di sottoporre l’autorizzazione della diffusione online “non occasionale” dell’immagine di un minore non solo all’autorizzazione di chi ne esercita la responsabilità genitoriale o ne è tutore, ma anche della direzione provinciale del lavoro. Soprattutto nel caso in cui la diffusione dell’immagine del minore produca, o sia finalizzata a produrre, “entrate dirette o indirette superiore ai 12mila euro all’anno”. Inoltre, “quando le entrate dirette e indirette derivanti dalla diffusione dei contenuti” superino 12mila euro all’anno, i proventi percepiti saranno vincolati a regole e non potranno essere utilizzate in nessun caso “da chi esercita la responsabilità genitoriale sul minore salvi eventuali casi di emergenza” e “previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria minorile”.

La questione dei baby influencer non è affatto facile da sbrogliare. Molto spesso, infatti, queste piccole celebrità del web beneficiano dell’appoggio dei loro genitori compiaciuti dalla cassa di risonanza che si crea attorno alle mini star e sedotti dai facili e immediati guadagni. Questi bambini e adolescenti, infatti, accumulano milioni di follower generando introiti mediante la condivisione della loro vita quotidiana e la promozione di prodotti, che sembra avvenire in maniera spontanea, mentre invece è il frutto di studiatissime strategie di marketing.

Come non porsi domande di carattere etico e legale sulla tutela dell’immagine, della privacy e dei diritti di questi minori non ancora consapevoli delle proprie azioni? La questione investe, inevitabilmente, anche l’ambito educativo. Quale messaggio passiamo ai nostri bambini e adolescenti? La risposta è immediata: insegniamo loro che apparire è più importante che essere, che si possono raggiungere successo e guadagni divenendo “fantocci virtuali da vetrina” in virtù di un faccino accattivante o di qualche vago e imprecisato talento.

Mentre i baby influencer si esibiscono incautamente in rete, di fatto vengono sfruttati economicamente, manipolati dai brand spesso con la compiacenza delle famiglie, violati nella privacy ed esposti a pressioni, critiche, bullismo o molestie da parte degli utenti del web.

Non meno gravi sono le ripercussioni di natura psicologica che potrebbero colpire, magari non nell’immediatezza, questi piccoli lavoratori del mondo virtuale. Gli psicologi parlano di danni nella costruzione dell’identità, nei processi comunicativi e perfino nelle capacità di apprendere. Anche la regolazione emotiva di questi bambini e adolescenti potrebbe farne le spese.

A partire dal 2017 non sono mancati atti giurisprudenziali che hanno condannato i genitori che avevano esposto mediaticamente i propri figli a un risarcimento in favore di essi. L’attuale normativa di riferimento è l’art. 10 del codice civile, che disciplina la tutela dell’immagine, il Codice della privacy ed il Regolamento per la Protezione dei dati personali, l’art. 96 della legge 633/1941 sul diritto d’autore, nonché la Convenzione di New York per i diritti del fanciullo del 1989.

Insomma, pubblicare le immagini dei figli minori oltre ad agevolare atti di cyberbullismo, furti d’identità, truffe online o ancor peggio atti legati alla pedopornografia, trasmette un messaggio educativo distorto. Lucrare poi sui propri figli rendendoli dei brand significa proprio prestarsi a una “mercificazione” di questi in nome delle divinità del denaro e del successo. Le riflessioni da fare sono molteplici e la questione richiede una grande dose di saggezza da parte del mondo adulto.

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Fonte: Sir