Lavoro dignitoso, quale strada? In Veneto 200 mila working poors, lavorano ma sono poveri

Sono 200 mila, in Veneto, i working poors. Nella sola provincia di Padova ci sono 50 mila con un guadagno netto mensile che va dai 600 agli 800 euro. Salario minimo o contrattazione collettiva? I numeri, pur allarmanti, dei cosiddetti lavoratori poveri non trovano un indirizzo comune di riposta. Anche gli stessi sindacati hanno visioni contrapposte

Lavoro dignitoso, quale strada? In Veneto 200 mila working poors, lavorano ma sono poveri

Il tema caldo del salario minimo arriva, letteralmente, a Padova. Giovedì 12 ottobre il segretario nazionale della Cgil Maurizio Landini è stato presente a un’iniziativa per ricordare i 130 anni della nascita dello storico sindacato, durante la quale ha rilanciato la mobilitazione per chiedere al Governo di intervenire sull’aumento dei salari: «In queste ore mi risulta che il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro abbia votato contro a maggioranza sul salario minimo, quindi, come abbiamo sempre pensato, il Governo ha scaricato un problema sul Cnel dividendolo e non affrontando il tema. Non si può essere pagati 5 o 6 euro all’ora perché sono stipendi da fame». Il problema in realtà è complesso, perché di mezzo ci sono i contratti collettivi nazionali che regolano stipendi e salari in quasi tutti i settori. Chi non sostiene la battaglia della Cgil e di parte della sinistra parlamentare (come per esempio è la posizione di Cisl), ritiene che il lavoro povero derivi, anche, da quanto si lavora nell’arco dell’anno se si vive di contratti precari e intermittenti, dalla composizione del reddito all’interno del nucleo familiare e dall’azione redistributiva dello Stato. La stessa linea è stata sposata anche dal Cnel che, come ha ricordato Landini, ha bocciato la proposta di introdurre il salario minimo, rimandando la palla alla contrattazione collettiva. «È innegabile che il problema esiste e riguarda in particolare i lavori a basso valore aggiunto come il settore delle pulizie, il portierato e, in generale, i servizi di accoglienza – commenta così la situazione dei working poors Roberto Crosta, segretario generale di Unioncamere Veneto – Ma ci sono professioni che, invece, richiedono competenze e che vengono remunerate poco, basti pensare a medici e infermieri e ai dipendenti degli enti locali. Nel primo caso stiamo vedendo una vera e propria fuga nel privato, dove le paghe sono più alte». Ma nonostante l’evidenza del lavoro povero, neanche Crosta approva l’idea del salario minimo: «La soluzione va cercata nella contrattazione collettiva. Lo Stato deve certamente intervenire, ma sgravando le tasse alle imprese che, in questo modo, possono aumentare le buste paghe. Anche perché non va dimenticato l’enorme tema dell’inflazione che sta erodendo il potere d’acquisto con il conseguente rischio del blocco dei consumi». Dello stesso avviso è anche Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro: «Il nostro ente si occupa prevalentemente di far trovare un’occupazione a chi è disoccupato ma osserviamo con attenzione il tema dei salari e degli stipendi di lavoratori e lavoratrici. Il 90 per cento delle professioni rientra nella contrattazione collettiva; il nostro auspicio è che da un lato si possa arrivare a una percentuale più alta di accordi contrattuali tra le parti e, dall’altro lato, che grazie alla contrattazione si possano ottenere remunerazioni più vantaggiose» conclude Barone, ravvisando quindi perplessità sull’idea del salario minimo che resta una proposta della sola Cgil e di parte della sinistra parlamentare. Eppure delle “scosse” su questo tema sembrano arrivare da altri organi dello Stato come la Corte di Cassazione che, di recente, ha deliberato sul tema accogliendo parzialmente un ricorso presentato da un lavoratore dipendente avverso la sentenza di secondo grado che aveva respinto le sue domande nei confronti della datrice di lavoro. Secondo la Cassazione «l’art. 36, 1° comma della Costituzione garantisce due diritti distinti che, tuttavia, nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda: quello a una retribuzione proporzionata garantisce ai lavoratori una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata; mentre quello a una retribuzione sufficiente dà diritto a una retribuzione non inferiore agli standard minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo, ovvero a una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Se la sentenza della Cassazione non dovesse bastare come pungolo al Governo, la Cgil promette di continuare la battaglia: «Prima ci consulteremo con i lavoratori e le altre organizzazioni sindacali, e poi decideremo quali strumenti utilizzare per manifestare il nostro dissenso. Abbiamo già iniziato sabato scorso con una manifestazione che ha raccolto un consenso altissimo e ha portato a Roma tantissime persone come non se ne vedevano da anni» ha ricordato Landini a Padova, città del “ricco Nordest” di un tempo che oggi si riscopre molto meno agiato. Secondo i dati della Cgil, infatti, la provincia di Padova annoverava nel 2022 50 mila lavoratori poveri, con il 15,9 per cento dei padovani che percepiva stipendi netti tra 600 e 800 euro al mese. «Andremo avanti fino a che il Governo non ci ascolterà. La gente non ce la fa più», conclude il segretario.

In Veneto ci sono 200 mila lavoratori poveri

Sono oltre 200 mila i lavoratori poveri del Veneto. Parliamo di individui che, pur avendo un lavoro e comparendo nelle statistiche come “occupati”, percepiscono meno di 11.500 euro lordi l’anno. Secondo una stima della Cgil del Veneto, sui dati dei Caaf regionali, i lavoratori in queste condizioni contrattuali sono poco meno del 16 per cento dell’intera platea di dipendenti che presentano a fine anno un modello 730. Una percentuale, però, che arriva al 23 per cento tra gli under 35 e al 25 per cento tra le donne: in pratica una lavoratrice su quattro. Un’altra cifra, indicativa, è quella del reddito medio effettivo di questa macro categoria: 7.242 euro annui, circa 600 euro lordi al mese. In Italia, secondo uno studio Ocse, negli ultimi 30 anni i salari, a parità di potere d’acquisto, sono calati del 2,9 per cento.

Il precedente e la sentenza della Cassazione

A presentare ricorso in Cassazione era stato un lavoratore della vigilanza privata di Torino lamentando come la sua retribuzione fosse troppo bassa. In primo grado aveva vinto e la società era stata condannata a pagare 20 anni di differenze retributive. In seguito, la Corte d’Appello aveva fatto marcia indietro rinviando ai contratti collettivi, ma la Cassazione ha ribaltato questa sentenza.

Dalla ristorazione al turismo: le categorie a basso reddito
ristorazione

Il working poor vede differenze considerevoli tra settore e settore: per esempio, come riporta Cgil, circa il 40 per cento di chi lavora nel terziario, nei servizi della ristorazione, del turismo ecc. percepisce salari sotto la soglia degli 11.500 euro lordi l’anno. «Anche chi può contare su un lavoro in somministrazione e per sbarcare il lunario si affida a un’agenzia interinale non se la passa un granché bene – evidenzia il sindacato – Qui il 38,2 per cento delle persone, anche a prescindere dal settore in cui è occupato, rientra pienamente nella categoria del lavoratore povero». Al terzo posto tra i settori dove i salari sono bassi e la precarietà più alta ci sono gli alimentaristi, dove oltre un dipendente su cinque (il 21,5 per cento del campione) non porta a casa un salario che supera la soglia standard di definizione del lavoratore povero.

Studi su 200 anni di lavoro negli Stati Uniti

Il Premio Nobel per l’Economia 2023 è stato assegnato a Claudia Goldin, professoressa statunitense di Harvard di 77 anni, per il suo ruolo nell’aver «accresciuto le nostre conoscenze sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro». Goldin è anche una storica, una demografa e una sociologa, e ha elaborato il primo ampio studio sull’evoluzione della partecipazione delle donne al mercato del lavoro nel corso dei secoli, spaziando dai livelli occupazionali alla loro retribuzione. Goldin ha raccolto dati che coprono oltre 200 anni di storia degli Stati Uniti: con un archivio di dati così ampio è riuscita a spiegare come e perché sono cambiate nel tempo le differenze di genere.

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