L’invisibile agli occhi. L’universo profondo
Euclid, il telescopio spaziale più avanzato, ci farà capire molto della materia oscura, ciò che non si vede ma “tiene insieme” l’universo. Un po’ come accade nella vita
Qualche settimana fa alcune immagini catturate da un nuovo telescopio spaziale hanno riempito di meraviglia scienziati e appassionati, tanto da conquistare spazio nei telegiornali e nella carta stampata. Le immagini sono quelle di Euclid, telescopio spaziale dell’Esa (l’Agenzia Spaziale Europea) lanciato il 1° luglio 2023 e messo in orbita a circa un milione e mezzo di chilometri di distanza dalla Terra, in compagnia di diverse altre sonde e dell’ormai famoso telescopio spaziale James Webb. Euclid è stato pensato e progettato per una ricerca difficile e ambiziosa, che intende rispondere alle domande forse più misteriose e intriganti rispetto alla nostra comprensione dell’universo: qual è la struttura della rete cosmica? Qual è la natura della materia oscura, e come si distribuisce? Qual è la natura dell’energia oscura, e come queste componenti hanno modellato la storia dell’universo, la sua evoluzione, la sua espansione? Un punto forte di questo telescopio spaziale è la grandezza di campo che riesce a ottenere, e che gli permetterà di osservare un’ampiezza di cielo pari a circa 2,5 volte l’area della luna piena (mezzo grado quadrato). La sua è una visione d’insieme molto più ampia di qualsiasi altro telescopio mai costruito, e l’intento sarà quello di mappare galassie, gruppi di galassie, ammassi stellari che si trovano ai margini degli aloni galattici, grazie all’altro punto forte: due fotocamere capaci di raccogliere immagini nel visibile e nell’infrarosso con una risoluzione di quasi 600 megapixel la prima e 66 megapixel la seconda, le più potenti mai lanciate nello spazio. Tra le cinque immagini pubblicate, la prima ha come protagonista l’ammasso del Perseo, composto da un migliaio di galassie legate gravitazionalmente le une alle altre. L’ammasso del Perseo, così come altri simili, mostra una coesione che non è spiegabile tenendo conto unicamente della materia visibile: quest’ultima non basta per giustificare la dipendenza gravitazionale tra i suoi componenti, per questo si suppone che ci sia un’alta concentrazione di materia oscura che concorre a tenere insieme l’ammasso. Studiando quindi la mappa di questi ammassi è teoricamente possibile dedurre la distribuzione di questo misterioso tipo di materia, il quale non emette radiazione elettromagnetica (non è “visibile”, da qui la sua denominazione) e che costituisce all’incirca il 90 per cento della massa dell’intero universo. Ciò che ha dell’incredibile tuttavia è che sullo sfondo dell’ammasso, che già di per sé è qualcosa di inimmaginabile, si possono distinguere oltre centomila altre galassie, molte delle quali osservate per la prima volta, con distanze fino ai 10 miliardi di anni luce. Centomila galassie e centinaia di miliardi di stelle per galassia in un’unica immagine. Una visione d’insieme più ampia, una profondità di campo eccezionale. Una ricerca “al negativo”: mappo ciò che vedo per individuare ciò che non vedo. Accorgersi, a partire dagli effetti, della presenza di qualcosa che è stato solo dedotto a partire da formule e calcoli. Andare indietro nel tempo, chiedendosi se la comprensione che abbiamo raggiunto è corretta o se c’è qualcosa da aggiustare, da ricomprendere. Ci sono movimenti, nella ricerca astronomica, che sono molto vicini a quelli della vita. Abbiamo bisogno di strumenti diversi per andare nel particolare ma anche per cogliere l’insieme. C’è una ricerca che ci porta sempre oltre a ciò che vediamo, che già sappiamo, lì dove i conti non tornano. Se i movimenti della ricerca scientifica possono essere controllati e precisi fino a centomila galassie e dieci miliardi di anni in una foto, altrettanto però non è nella vita. La ricerca è molto simile, per chi non si accontenta della superficie ma vuole andare in profondità, cercando quei filamenti, quei nodi in cui la vita diventa pienezza. Non sempre si riesce a dedurre che c’è qualcosa o Qualcuno oltre a ciò che si vede, non sempre si hanno gli strumenti giusti per guardare in profondità, per allargare il campo. Non sempre si riesce a cogliere il percorso fatto, a dargli un nome, a riconoscerne l’origine. Come esseri umani siamo molto bravi a tornare alla visione stretta, a lasciare i puntini là dove sono. Ci serve la pazienza di rimanere dove i conti non tornano, per cogliere le contraddizioni e farle diventare occasioni di crescita. Ci serve lasciare che l’invisibile diventi parte dell’equazione per godere di tutto lo spettacolo.
Manuela Riondato
Collaboratrice Apostolica della Diocesi di Padova, laureata in Astronomia e Dottore in Teologia