Il Pnrr, una faccenda seria
Senza i 35 miliardi previsti dal Pnrr per quest’anno, l’Italia dovrebbe finanziarsi sui mercati in misura ancora maggiore di quanto non debba già fare e con i tassi attuali sarebbe un salasso.
Stavolta sembra che la vicenda dell’ormai fatidica terza rata del Pnrr sia davvero giunta al traguardo. E’ una vicenda all’apparenza molto tecnica e settoriale e che invece vale la pena ricostruire nei suoi passaggi fondamentali perché può dire molto sulla faticosa attuazione del Piano di ripresa e resilienza e sulle sue profonde implicazioni politiche ed economico-sociali. A rigore bisognerà attendere settembre per il via libera definitivo da parte della Ue ma il nodo che finora ha bloccato l’erogazione (il raggiungimento dell’obiettivo relativo agli alloggi per gli universitari) è stato superato grazie a un accordo in cui l’Italia rinuncia temporaneamente ai 519 milioni corrispondenti. Tale importo sarà decurtato dai 19 miliardi della terza rata e caricato, insieme al connesso obiettivo da raggiungere, sulla quarta rata, in origine pari a 16 miliardi. Tutto il processo, peraltro, è già in netto ritardo perché gli obiettivi della terza rata andavano conseguiti entro la fine del 2022 e quelli della quarta (di cui l’Italia ha già chiesto una rimodulazione) entro lo scorso 30 giugno. L’esigenza di un minimo di flessibilità in un’operazione di questa portata è del tutto comprensibile, ma un primo elemento da mettere in evidenza è che il Pnrr si conferma un’impresa terribilmente seria. E se qualcuno pensa che un eventuale cambio negli assetti politici della Ue – dopo le elezioni del giugno 2024 – possa facilitare la strada del nostro attuale governo si sbaglia di grosso. Non solo perché tale cambio è una mera eventualità tutta da verificare e poi perché in ogni caso i nuovi vertici europei saranno nella pienezza delle loro funzioni non prima della fine del prossimo anno (nel 2019 la Commissione entrò in carica il 1° dicembre). Ma soprattutto perché sull’utilizzo dei fondi del Pnrr il rigore delle verifiche non è questione di destra o di sinistra e tra i potenziali, futuri alleati europei della maggioranza al governo in Italia potrebbero ritrovarsi dei controllori più severi degli attuali.
Un secondo elemento da sottolineare riguarda le reazioni politiche interne. Per le opposizioni la riduzione dell’importo della terza rata segna una sconfitta, per il governo lo sblocco della situazione è comunque un successo. Per le opposizioni la colpa dei ritardi che hanno provocato l’impasse è dell’esecutivo in carica che avrebbe perso tempo per modificare gli organismi e le procedure di gestione del Piano, per il governo la responsabilità ricade sugli esecutivi precedenti. C’è del vero, sia pure in termini diversi, in tutte queste posizioni, ma ancora una volta bisogna purtroppo registrare l’incapacità delle forze politiche di considerare l’attuazione del Pnrr come un’impresa comune nell’interesse generale del Paese, non una battaglia di schieramento.
Il terzo elemento, forse il più insidioso, è l’affiorare di una certa insofferenza nei confronti del Piano e dei suoi impegni. Come se invece di rappresentare una straordinaria opportunità per il Paese esso fosse un vincolo fastidioso. Si tratta fortunatamente di un sentimento per ora minoritario. Del resto basterebbe ricordare che senza i 35 miliardi previsti dal Pnrr per quest’anno, l’Italia dovrebbe finanziarsi sui mercati in misura ancora maggiore di quanto non debba già fare e con i tassi attuali sarebbe un salasso: nei primi cinque mesi del 2023 il fabbisogno è schizzato a 81,8 miliardi e il numero due del Mef ha ammesso che “abbiamo una difficoltà enorme, quella dei conti pubblici”. Per non parlare del valore del piano in termini strutturali. Anche qui un esempio tra tanti possibili: dalle anticipazioni del Rapporto Svimez è emerso il contributo rilevantissimo che il Pnrr darebbe al Pil del Paese se fosse attuato pienamente, con il Sud che nel 2025 vedrebbe chiudere il divario di crescita con il Centro-Nord.