Giovani iperstimolati. Sommersi da internet
Iperstimolazione Bambini e adolescenti sempre connessi: scuola, genitori, parrocchie sono chiamati a un patto digitale di comunità
Sempre connessi, continuamente interrotti da notifiche e segnalazioni, bambini e ragazzi usano lo smartphone soprattutto per tenersi in contatto con gli amici e per giocare, senza però comprendere i meccanismi impietosi della cosiddetta “economia dell’attenzione”. Un atteggiamento passivo nei confronti della tecnologia che rischia di favorire fenomeni come ludopatia, dipendenza dalla pornografia e cyberbullismo, senza peraltro gli effetti positivi della digitalizzazione in termini di benessere e di crescita dell’economia. È il ritratto tracciato da Save the Children in “Tempi digitali”, quattordicesima edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia diffuso come ogni anno in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia. In Italia il 73 per cento di bambini e adolescenti tra i 6 e i 17 anni utilizza internet tutti i giorni e lo fa soprattutto attraverso lo smartphone; una situazione favorita soprattutto dalla pandemia: al Nord la percentuale dei bambini tra i 6 e i 10 anni che utilizzano il cellulare tutti i giorni è passata dall’11,5 per cento al 21,8 per cento tra il 2018 e il 2021. Ragazze e ragazzi sfruttano la connessione soprattutto per la messaggeria istantanea, utilizzata dal 93 per cento dei 14-17enni, guardare video (84 per cento, in crescita), frequentare i social media (79 per cento) – con Facebook in drastico declino mentre avanzano Instagram, TikTok e Snapchat – e i videogiochi (72,4 per cento). Se le ragazze frequentano con più costanza e intensità i social media (84 per cento contro il 74 per cento dei maschi), il gaming, il gioco online, impegna di più i ragazzi (81 per cento contro il 64 per cento delle ragazze), anche se le videogiocatrici sono in crescita. Solo il 28,5 per cento degli 11-17enni legge riviste e giornali online (percentuale che sale al 37 per cento nella fascia oltre i 14 anni) e sfrutta i social come canali di informazione, anche se dichiara di non sapersi sempre difendere dalle fake news. Nonostante questo utilizzo diffuso, nella mappa europea sulle competenze digitali dei 16- 19enni, l’Italia si posiziona quartultima: la quota di giovanissimi con scarse o nessuna competenza è del 42 per cento rispetto a una media europea del 31 per cento. Il dato medio italiano nasconde ampi divari territoriali, con il Nord più vicino ai valori medi europei (34 per cento) e il Sud che ha oltre la metà dei ragazzi con scarse o nessuna competenza (52 per cento). Se guardiamo ai giovanissimi che hanno acquisito elevate competenze digitali, gli italiani sono poco più di uno su quattro.
Si tratta di un rapporto sbilanciato con la tecnologia, che rischia di lasciar spazio alle dipendenze: il 13,5 per cento degli adolescenti dagli 11 ai 15 anni mostra un uso problematico dei social media, dato che tra le ragazze tredicenni tocca addirittura il 20,5 per cento; mentre per i maschi il primo problema è rappresentato dai videogiochi: il 24 per cento dei giovani dagli 11 ai 15 anni ne fa un uso eccessivo. I comportamenti a rischio di dipendenza tecnologica sono correlati a un aumento dell’ansia, della depressione e dell’impulsività, nonché a una peggiore qualità del sonno, a un rendimento scolastico scarso e a un maggior rischio di sovrappeso o obesità. «I dati del rapporto chiamano l’intera comunità a un’assunzione di responsabilità – commenta Michele Visentin, insegnante e docente di pedagogia all’Istituto superiore di scienze religiose (Issr) di Padova e di psicologia dell’orientamento educativo allo Iusve, l’Università salesiana di Venezia – Internet non è più semplicemente strumento da adoperare: è un vero e proprio ambiente in cui siamo immersi, peraltro abitato anche da bambini ma ideato e costruito completamente dagli adulti. Bambini e adolescenti pagano nell’infosfera il prezzo dell’iperstimolazione, a cominciare dai deficit attentivi, ed è evidente che bisogna trovare il modo di proteggerli. Attenzione però: internet a volte potrebbe essere non la causa di tutti mali, ma la difesa nei confronti di un senso di inadeguatezza che i ragazzi non riescono a risolvere nelle relazioni faccia a faccia con gli adulti».
Che fare allora? Secondo Visentin «piuttosto che nel controllo bisogna investire in quelli che oggi vengono chiamati patti digitali di comunità, che coinvolgano non solo scuola e genitori ma anche associazioni, parrocchie e istituzioni, per mettere a punto e condividere regole e percorsi comuni. L’educazione digitale si progetta solamente insieme». L’insegnante e studioso inoltre, in accordo con le ricerche condotte sul campo, suggerisce di lavorare su tre aspetti fondamentali: «Scommettere sulla competenza digitale, che il Consiglio d‘Europa definisce come l’utilizzo con spirito critico delle tecnologie della società informazione. Significa anche imparare a usare i dispositivi per lo studio, ricerche e il tempo libero, in modo però da finalizzare sempre lo strumento alla soddisfazione di esigenze reali. In secondo luogo è essenziale che la persona riesca a controllare in modo strategico l’utilizzo delle tecnologie, limitando ad esempio il tempo di utilizzo oppure mettendo lo smartphone in un’altra stanza mentre si dorme o si studia. È infine necessario imparare a usare il digitale per scopi sociali e culturali, anche e soprattutto nelle nostre comunità parrocchiali: non demonizzare lo strumento ma impiegarlo per campagne informative, sociali o culturali». Agire insomma sugli aspetti educativi e culturali, senza però perdere di vista anche l’aspetto dei diritti. Come fa per esempio il comitato provinciale padovano dell’Unicef, che in novembre ha organizzato con il patrocinio del Comune di Padova un ciclo di incontri che sarà presto replicato, tenuti dall’avvocato Margherita Tessier su temi come il cyberbullismo e la necessità di un’educazione digitale. «Spesso infatti bambini e ragazzi non si rendono conto dell’importanza dei loro dati personali e della privacy, sono disposti a rinunciare alla loro sfera di riservatezza pur di accedere al paradiso online», spiega Tessier. I rischi invece sono tanti, a partire dal pericolo di essere adescati da adulti che utilizzano false identità: «Nel grooming (l’adescamento di un minore in internet tramite tecniche di manipolazione psicologica, ndg) l’adescatore cerca di instaurare rapporto emotivo con il bambino, magari sfruttando i suoi problemi con genitori e amici, per poi chiedere foto o video». Ci sono poi il cyberbullismo e il cyberstalking, fenomeni purtroppo in espansione, fino ai casi in cui account o profili social vengono hackerati allo scopo di diffondere informazioni personali. «Si tratta di un mondo che i genitori devono conoscere per proteggere i loro figli – continua l’avvocato Tessier – Gli adulti dovrebbero avere un maggiore spirito critico, mentre ragazzi e bambini sono cosiddetti nativi digitali: non distinguono la realtà dal virtuale perché non esiste ancora un’educazione digitale a livello familiare o istituzionale». E il cosiddetto parental control? «Strumento utile ma insufficiente: è necessario il dialogo tra adulti e ragazzi, ma soprattutto che le grandi piattaforme social e i provider mettano in campo strumenti cautelativi efficaci. Curare e sanzionare non può più bastare: bisogna scommettere sulla prevenzione».
Quasi 5 miliardi di persone attive sui social network
Secondo il report di We are social, degli 8 miliardi di persone, 5,16 miliardi sono attivi su internet (64,4 per cento) e ben 4,7 miliardi sono utenti attivi sui social.