Dopo il delitto di Thomas. Cappellano Nisida: “Ai ragazzi insegniamo che l’altro è un nemico. Come possono avere empatia?”
“Di che cosa nutriamo i nostri ragazzi?”, si chiede don Fabio De Luca, che aggiunge: “Ragazzi che sono totalmente lasciati a loro stessi, vivono le relazioni mediate da esperienze virtuali, che tipo di solidarietà possono sperimentare?”
È stato convalidato il fermo per i due minori indagati per l’omicidio efferato di Thomas Christopher Luciani, a Pescara. Oltre venti coltellate per un piccolo debito di droga e nessuna pietà verso la vittima. Un delitto maturato non in un ambiente degradato, ma che vede come indagati due ragazzi di buona famiglia. Don Fabio De Luca, cappellano a Nisida, parroco di San Vitale a Fuorigrotta e vicario episcopale per la Carità della diocesi di Pozzuoli, di ragazzi difficili ne incontra tanti tra le mura dell’Istituto penale minorile, ma per lo più vengono da contesti già segnati dal malaffare.
Don Fabio, i ragazzi che hanno ucciso Thomas non sono come quelli che lei incontra normalmente, eppure, anche se non provengono da ambienti criminali, hanno mostrato una freddezza e mancanza di empatia impressionanti…
È vero: la maggior parte della popolazione dei ragazzi di Nisida è fatta da ragazzi che provengono da un sistema criminale abbastanza organizzato, è difficile trovare a Nisida il ragazzino di “famiglia bene”, così come sono stati descritti i ragazzi di Pescara che hanno ucciso Thomas. I ragazzi di Nisida hanno come riferimento genitori, parenti, amici con un back-ground criminale e hanno imparato quel tipo di vita, quasi che fosse ineluttabile: hanno fatto proprio questo modello di vita in cui sono cresciuti. Questi ragazzini dal grembo della madre hanno respirato quest’aria, si sono nutriti di questo cibo. C’è un’ignoranza diffusissima, non hanno frequentato le scuole o al massimo hanno la licenza media.
Quando ho avuto a che fare con un ragazzo di una famiglia cosiddetta perbene, mi sono reso conto di trovarmi davanti un ragazzo a cui non era stato assolutamente insegnato il valore della solidarietà, la capacità di empatia, il mettersi a servizio degli altri. Dobbiamo, allora, chiederci: di che cosa nutriamo i nostri ragazzi? Ragazzi che sono totalmente lasciati a loro stessi, vivono le relazioni mediate da esperienze virtuali, quale capacità di empatia possono sviluppare, che tipo di solidarietà possono sperimentare?
Io penso che sia questo uno degli elementi problematici, perché poi sono molti i fattori che possono indurre un ragazzo a fare cose del genere e a non provare emozioni. È triste pensare che un ragazzo, una persona, non provi emozioni. Posso capire che un adolescente provi delle emozioni a cui non abbia imparato a dare un nome, a gestirle. Questo ci può stare nell’adolescenza, ma non provarle è patologico.
Come siamo arrivati a questo?
Ci troviamo di fronte al risultato del male della nostra società contemporanea, che per molti motivi partorisce giovani con difficoltà enormi, che non sono nemmeno consapevoli. Io sono anche parroco e parlo molto con i genitori dei bambini del catechismo. Se educhiamo i bambini, da quando hanno la capacità di saper ascoltare i genitori e di comprendere quello che viene loro detto, dicendo loro che non si devono fidare di nessuno, li stiamo educando alla guerra, li stiamo crescendo nel conflitto.
Se facciamo crescere i figli considerando gli altri nemici da cui difendersi la legge con cui questi ragazzi risponderanno nella relazione con gli altri sarà “mors tua vita mea”.
Se a questo aggiungiamo che le figure educative sono completamente in crisi e le famiglie sono sfasciate, abbiamo il quadro completo. Se non c’è un impegno da parte di tutti, a cominciare dagli adulti, a dare una svolta, situazioni come quelle di Pescara saranno, purtroppo, sempre più frequenti. Però il carnefice è tale perché è stato prima vittima di noi adulti che non l’abbiamo nutrito di quello di cui aveva bisogno per crescere in maniera sana. Un ragazzino è responsabile ma fino a un certo punto. Mi domando quanta libertà hanno avuto quei ragazzi di Pescara per scegliere veramente? Ed è quello che mi domando ogni volta che accolgo un ragazzo a Nisida. Io non chiedo mai che reato ha compiuto, sarà lui, poi, a parlarmene. Però rispetto a delle scelte che ha fatto quale è stata la reale libertà, la consapevolezza? Io credo che una scelta consapevole è rara nei giovanissimi.
C’è un’incapacità a gestire i sentimenti?
Racconto un episodio di tanti anni fa: a Nisida, in cui si faceva la pet therapy, c’era un ragazzo, figlio di un boss della zona di Ponticelli, per aver commesso un omicidio. Il ragazzo aveva in braccio uno dei coniglietti nato da poco. Mi avvicinai e gli dissi che mi faceva tenerezza. Si girò verso di me e mi disse: “Come me lo hai detto ora non me lo dire più”. Gli chiesi spiegazione della sua affermazione e il ragazzo ribatté: “Perché io non faccio schifo a nessuno”. Gli spiegai: “Ho detto tenerezza, non schifo”. E lui mi chiarì: “Per me la tenerezza è schifo”. Un ragazzino che viene cresciuto nella convinzione che la tenerezza sia un disvalore, che un vero uomo non deve mai sperimentare e che se altri te lo attribuiscono è un’offesa, come può provare empatia? Io restai molto tempo con questo ragazzo per spiegargli la bellezza della tenerezza, il suo essere l’espressione più bella dell’amore. Il ragazzo, alla fine, mi disse di aver capito quello che gli avevo detto ma che ugualmente non glielo dovevo dire più che mi faceva tenerezza, perché per lui era una vergogna. Questo la dice lunga della disumanizzazione.
Siamo ormai in un contesto fortemente disumano, dovremmo recuperare la nostra umanità, che abbiamo perso.
Non si sente più come valore prezioso da curare, alimentare e difendere. E questo è tragico.
Come aiutare questi ragazzi a recuperare e tornare alla vita?
La proposta educativa deve venire da più fronti, sicuramente dall’educatore, dall’agente, dal cappellano, dallo psicologo, dalla direzione, cioè dalle varie figure educative che ci sono nell’Istituto, ma fondamentale diventa anche la famiglia. Ho visto ragazzi che hanno scelto valori diversi da quelli di cui si erano nutriti e che in realtà erano disvalori perché c’è stata l’alleanza con la famiglia. Poi ci sono anche ragazzi, ma sono in numero minore, che hanno deciso di troncare i legami familiari “a rischio”, per il contesto criminale di provenienza. Quando mi chiedono quanti ragazzi riusciamo a recuperare, la risposta può anche essere 1 o 3 su 10, ma anche se riusciamo a salvarne uno è importante adoperarsi. Non è semplice perché si tratta di cambiare vita, storia, contesto, valori di riferimento. I ragazzi vanno sostenuti, incoraggiati, accolti, non solo nel carcere, perché questo avviene, ma soprattutto quando escono. Ma purtroppo viene offerto pochissimo, perché hanno l’etichetta attaccata addosso per quello che hanno fatto, poi al Sud non c’è lavoro manco per chi non delinque.
La nostra società è malata per tante cose: da un lato, condanna, dall’altro lato, però, non propone una reale alternativa.
E allora è come una sorta di condanna a morte: “Hai fatto questo, devi andare in galera, però anche quando esci non devi avere opportunità”. Diventa difficile per un adolescente.
Quale può essere l’impegno della Chiesa?
Come Chiesa non possiamo risolvere tutti i problemi della società italiana e lo dico anche dalla mia esperienza di parroco della chiesa di San Vitale, a Fuorigrotta, una comunità di 20mila abitanti. Sono in tanti, che pur non frequentando la parrocchia, ci chiedono aiuto, noi facciamo quel che possiamo ma non ci possiamo sostituire allo Stato.
Come Chiesa di Napoli e di Pozzuoli stiamo lavorando al Patto educativo per dare una svolta a questa crisi educativa imperante. Infatti, l’educazione è fondamentale per la prevenzione.
Stiamo lavorando con grande fatica ma ce la stiamo mettendo tutta perché nelle scuole, negli oratori, nelle parrocchie, nelle associazioni, facendo rete, si trasmettano quei valori che fanno sì che la persona sia umana. Poi nella diocesi di Pozzuoli c’è una casa famiglia, Casa Papa Francesco, nella Fondazione Centro educativo diocesano Regina Pacis a Quarto, che accoglie ragazzi in misura alternativa rispetto al carcere minorile di Airola e di Nisida: sono accompagnati, si dà la possibilità di un’istruzione, di una specializzazione, di fare un’esperienza lavorativa. Il nostro impegno come Chiesa è di cercare di prevenire per evitare che i ragazzi vadano a Nisida e per quelli che ci sono già di aiutarli a uscire dalla logica che li ha portati a Nisida, sostenendoli, accompagnandoli, aiutandoli. Ad esempio, attraverso il progetto “Puteoli Sacra”, coordinato dalla Fondazione Centro educativo diocesano Regina Pacis, in cui lavorano ragazzi in misura alternativa al carcere, per dare competenze, inserirli nel mondo del lavoro. Non è il luogo dove possono avere il posto fisso, ma fanno esperienza.