Da reddito di cittadinanza ad assegno d'inclusione: cosa c'è che non va?
Intervista ad Antonio Russo, portavoce dell'Alleanza contro la povertà: “Viene meno il principio costituzionale dell'universalismo della misura, che finora era stato salvaguardato. Con i nuovi requisiti, ad agosto 213 mila persone circa non avranno più sussidio”
Non va bene la “filosofia”, ma non va bene soprattutto la pratica: la nuova misura di contrasto alla povertà, o meglio le due nuove misure – Adi (assegno d'inclusione) e Sda (strumento di attivazione) – contenute nel decreto Lavoro licenziato il 1 maggio dal Consiglio dei ministri, non piacciono affatto all'Alleanza contro la povertà. Le 35 organizzazioni (sindacati, associazioni, ong, Forum Terzo settore) che ne fanno parte “non sono state consultate, per la messa a punto di uno strumento che doveva essere migliorativo, ma che sarà invece peggiorativo, se rimarrà quello annunciato nella nota del governo. Avrebbe avuto senso consultarci, ma è stato scelto di non farlo. Il risultato è una misura, anzi due, che rischiano di mancare completamente l'obiettivo di ridurre la povertà nel nostro Paese”. A parlare è Antonio russo, portavoce di Alleanza contro la povertà.
Cosa c'è che non va, nelle misure previste dal Decreto Lavoro?
Innanzitutto, la filosofia che sta dietro il decreto: di fatto, la misura di contrasto alla povertà non è più universale. Questo principio costituzionale, salvaguardato nelle quattro misure precedenti, oggi si perde, perché il provvedimento è di natura categoriale, cioè divide le persone che si trovano in difficoltà in due gruppi nettamente separati: occupabili e non occupabili. Peraltro non si comprende la ragione e la logica di questa rigida suddivisione.
E nella pratica?
Nella pratica, l'assegno d'inclusione è cucito addosso alle famiglie non occupabili con minori, disabili oppure over 60 all'interno del nucleo. Ha una durata di 18 mesi, cui segue un mese di pausa e altri 12 mesi di sussidio. L'Isee non deve superare i 9.360 euro e l'importo sarà di 500 euro, a cui eventualmente aggiungere 200 euro per l'affitto e ulteriori incrementi sulla base della scala di equivalenza. Abbastanza simile al Rdc, l'Adi ci sembra, almeno a una prima lettura, un po' più generoso con le persone disabili, un po' meno generoso con i minori. In nessun modo si considerano i 18enni, che rientrano nella seconda misura.
Ovvero lo Strumento di attivazione. Di cosa si tratta?
Lo Sda è lo strumento di attivazione pensato per gli occupabili. Come sia stata definita questa platea, a noi non è chiaro. Ne fanno parte gli adulti tra 18 e 59 anni, cui spetta un contributo mensile di 350 euro per 12 mesi non prorogabili. Le condizioni sono un reddito fino a 6 mila euro l'anno e la frequenza di un corso di formazione, oppure la partecipazione a un progetto di servizio civile o, ancora, lo svolgimento di un lavoro socialmente utile. L'indennità di 350 ero – perché di indennità ci pare giusto parlare – è corrisposta solo per il periodo in cui queste iniziative si svolgono. E qui ci sarebbe da aprire una discussione sul servizio civile, che è sempre stato uno strumento di cittadinanza attiva e ora si trasforma in una possibilità ibrida di lavoro. Altra condizione per il riconoscimento dell'indennità è che non siano rifiutate, le cosiddette proposte congrue. La novità è che si intende, per proposta congrua, anche l'offerta di un contratto a tempo determinato, purché superiore a 12 mesi, oltre gli 80 chilometri di distanza. Al di sotto dei 12 mesi, la proposta è congrua quando è collocata entro gli 80 chilometri da casa.
Cosa accadrà dunque nei prossimi mesi?
Intanto attendiamo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, perché modifiche e stravolgimenti sono ancora possibili. Poi, se tutto resterà com'è ora, dovremo guardare con attenzione ai non occupabili, che secondo i dati sono attualmente 404 mila. Secondo il governo, circa la metà di questi continueranno a percepire il sussidio, perché in possesso dei requisiti richiesti. L'altra metà, ovvero circa 213 mila persone, da agosto resteranno senza sussidio e a settembre potranno richiedere lo strumento di attivazione. Ovvero, dovranno attivarsi per trovare un corso di formazione, o un progetto di servizio civile o un lavoro socialmente utile. Se non troveranno niente, non percepiranno niente. Ma io mi domando: viviamo in un paese in cui il sistema di infrastrutturazione delle politiche attive del lavoro è in grado di rispondere a queste persone e accompagnare nella ricerca e nell'attivazione di questi percorsi? E la situazione è la stessa in tutti i territori? Io ho qualche dubbio: sia il reddito di cittadinanza sia le misure precedenti misure hanno accusato problemi quando si è tentato di accompagnare le persone al lavoro: è proprio qui che abbiamo raccolto i più grandi fallimenti, con i centri per l'impiego che non sempre recepiscono le sollecitazioni e le forti diseguaglianze territoriali. In più, alcune di queste persone “occupabili” non hanno le competenze necessarie anche per la ricerca di questi percorsi: si pone quindi un problema di infrastrutturazione sociale, visto che la norma prevede che siano i comuni ad accompagnare questa ricerca. Ma siamo sicuri che siano in grado di farlo? In definitiva, abbiamo molte perplessità e ci saremmo aspettati di essere interpellati, vista la nostra competenza e la lunga esperienza nel contrasto alla povertà. E' troppo tardi per farlo? Forse no. Invitiamo quindi il governo ad attivare questo confronto, ma soprattutto a superare lo stigma: quando parliamo di povertà, parliamo di persone in carne e ossa, che non riescono ad affrontare la vita quotidiana. Eppure, è diffuso il pensiero che, in qualche modo, se la siano cercata. Non è così: molti hanno perso il lavoro a causa della pandemia, o della crisi economica, che è legata anche alla guerra. Dieci anni fa i poveri assoluti erano 2,350 milioni, oggi sono 6 milioni circa: servono risposte strutturali, non misure spot. Serve un approccio non ideologico. Serve un impegno tempestivo, collettivo ed efficace.
Chiara Ludovisi