Antisemitismo. Fiasco: “Una malattia mai debellata. Il conflitto può trasformarla in epidemia, bisogna evitare che diventi pandemia”
“Il circolo vizioso si può interrompere grazie a quella variabile che si chiama 'perdono', che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni da parte della vittima. Ma è la scelta della vittima che si fa protagonista ed esercita un grande potere: il potere della riconciliazione”, dice al Sir il sociologo
“Il brutale attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre scorso ha dolorosamente e vilmente colpito Israele con tanti morti innocenti e il seguito dei rapiti nelle mani dei terroristi, sulla cui sorte trepidiamo e chiediamo siano restituiti alle loro famiglie. … L’attacco ha sconvolto il popolo israeliano e suscitato la reazione militare d’Israele contro Hamas sulla striscia di Gaza. Questa a sua volta ha causato al popolo palestinese, in gran parte profughi, migliaia di vittime innocenti, molti dei quali bambini. Le lacrime sono tutte uguali. Ogni uomo ucciso significa perdere il mondo intero”. Sono parole del card. Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, nell’introduzione dell’Assemblea straordinaria generale, ad Assisi, mettendo al tempo stesso in guardia dal preoccupante risorgere dell’antisemitismo. Su questo pericoloso intreccio, escalation del conflitto israelo-palestinese e rigurgiti di antisemitismo, abbiamo sentito il sociologo Maurizio Fiasco.
Professore, lo scenario è fosco…
Una premessa, necessaria, ma che sembra sfuggire ai più.
Il conflitto israelo-palestinese, in corso da oltre 70 anni, è quello che si prolunga di più nel pianeta terra. La comunità internazionale non è infatti mai riuscita a comporlo, nonostante i mutamenti epocali in così tanti decenni.
Si sono trasformate radicalmente le relazioni internazionali, nel collasso di regimi che sembravano inattaccabili. E ciò ha sovvertito valori e prospetti psicologici, nella scomparsa di modelli produttivi e industriali. Eppure, bisogna tornare alla guerra delle Fiandre nel XVI secolo – svoltasi per 80 anni – per ricordare una tragedia di ampiezza paragonabile a quella in Medio Oriente: ancora senza che si profili una via di uscita, mentre intere generazioni sono nate e stanno completando il ciclo naturale della vita senza aver conosciuto una patria e la pace.
Non solo il conflitto, ma c’è anche un ritorno dell’antisemitismo.
L’antisemitismo non è un fenomeno spontaneo, ma il sintomo di una malattia che segna varie epoche attraversate dall’umanità. Esplode e si diffonde dopo la cacciata degli ebrei dal regno di Spagna, nel 1492, e diventerà un lievito dell’autoritarismo e dell’assolutismo, dei regimi terribili verso la fine dell’Ottocento e soprattutto dopo la fine della Prima Guerra mondiale. Con il crollo economico della Germania, per la ricaduta della grande crisi finanziaria del 1929, il totalitarismo intossicherà le masse proprio dove era insediata la più numerosa, colta e innovativa comunità ebraica del Vecchio Continente. Per poi giungere allo sterminio industrializzato nei lager.
Disegno del potere e congiuntura delle relazioni internazionali possono riuscire dunque a far risorgere le condizioni per l’antisemitismo: che da atteggiamento di minoranza conquista gli umori di parte della popolazione, divenendo un comportamento cui anche la politica imprime l’accelerazione.
La situazione attuale deve preoccupare?
C’è ragione di allarmarsi, perché sta uscendo dai territori (morali, psicologici, culturali, dunque non solo fisici) che erano ben noti, seppur minoritari. E, con la rozzezza dei richiami ai pregiudizi razziali, va proponendo a parti delle popolazioni una chiave esplicativa del loro rischiare, o già vivere, l’esclusione sociale per povertà assoluta. Insomma, l’inganno e l’impostura si fanno strada in presenza di un disagio di massa, come accade tanto nelle crisi post-belliche, quanto nelle ristrutturazioni e nelle crisi delle economie nazionali.
L’antisemitismo, possiamo affermare per analogia, è una malattia endemica che riemerge nel precipitare delle difese immunitarie nei popoli.
E poi c’è il terrorismo…
In tale quadro si presenta la reviviscenza del terrorismo. E dell’insistenza a perseguire l’illusione di una sua sconfitta per via “tecnica”, cioè militare. Eppure, l’esperienza (da ultimo negli anni Settanta) ha insegnato come il terrorismo, per essere sconfitto, non si estingua per mero contrasto “operativo” e a mano armata.
Il terrorismo prospera quando cattura un’ampia legittimazione per via di consenso. È così oltrepassa il dolore e i lutti che causa con le sue azioni scellerate, quando si verifica almeno una di queste tre condizioni fondamentali: l’ancoraggio a una questione di nazionalità che non riesce a diventare un’entità statuale; il radicamento in una questione etnica, cioè quando una maggioranza o una minoranza opprima l’altra parte negandole opportunità fondamentali; se un regime autocratico reprime con il sangue e la tortura le libertà politiche, civili, di pensiero, di organizzazione pacifica, di espressione religiosa.
Questi tre fattori consegnano all’azione scellerata e criminale di minoranze – i terroristi – l’investitura, il mandato sociale, etnico o di rivendicazione di un bisogno naturale insoddisfatto alla vita. Si comprende che nel contrastare il terrorismo la scelta dell’opzione esclusivamente militare provoca grandi sofferenze, mentre il problema non si risolve. Si riprodurrà comunque una consegna del testimone, nel propagarsi del mito dei terroristi, che pur sconfitti hanno interpretato l’anelito alla liberazione nazionale, alla integrità etnica o alle libertà fondamentali. Certo, è la versione manipolatoria dei terroristi, ma fa presa, purtroppo. E poi c’è la guerra, che, come ha ammonito anche il grande psicoanalista James Hilmann, “non ha altra causa che la sua struttura”. E infatti, nell’interminabile conflitto israelo-palestinese, assistiamo ancora alla spinta autopoietica del conflitto: si autoalimenta, come un gioco nel quale si è entrati senza aver fissato le regole per uscire dal gioco. Non è stato così per la Prima e per la Seconda Guerra mondiale? Che sono cessate solo quando il prezzo delle distruzioni è divenuto insopportabile per qualsiasi sistema: 50 milioni di morti nella Prima Guerra mondiale, 70 nella Seconda.
Il conflitto in corso accresce l’antisemitismo?
L’antisemitismo è una malattia mai debellata. Il conflitto può trasformarla in epidemia, bisogna evitare che diventi una pandemia.
Il circolo vizioso del conflitto si può interrompere grazie a quella variabile che si chiama “perdono”, che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni da parte della vittima. Ma è la scelta della vittima che si fa protagonista ed esercita un grande potere: il potere della riconciliazione.
È un discorso difficile però da far accettare a chi subisce violenza o attacchi terroristici senza aver fatto nulla…
Un aspetto terribile della violenza è l’essere una malattia, che spinge il male a contagiare anche la vittima. Quando il Papa dice che la guerra è una sconfitta per tutti, questa sua frase, a mio avviso, significa che nella guerra tutti pagano, non solo con il dolore e con la sofferenza atroci, ma anche che tutti sono vittime del meccanismo autopoietico che contrassegna la guerra. È la guerra a dominare i comportamenti, a guidare i pensieri, stravolgendo le facoltà cognitive razionali dei sistemi e delle persone singole. Finché non ci si emancipa da questo cerchio infernale, si resta vittime e, nello stesso tempo, si corre il pericolo di volgersi in carnefici. Il male subìto dalla vittima si compone di ferite inflitte ai corpi e alle anime, di lutti vissuti. Ma anche di condizionamenti perversi alla vittima stessa quanto alla sua struttura emotiva, al formarsi ossessivi di pensieri di male, di smarrimento del senso comune di umanità.
Vi si presta poca attenzione, di solito, ma è una grande devastazione che compie la violenza: cambia la persona che la subisce e la costringe a diventare simmetrica al carnefice.
Dicevamo però che l’antisemitismo ha una lunga storia…
Sì, perché nasce come strumento del potere, poi viene inoculato nella popolazione; quindi, entra nel senso comune e nella cultura di una parte della popolazione. E non se ne allontana automaticamente.
Serve una grande, assidua, incessante azione di contrasto. Va spento ai primi segni del suo riemergere. Il problema è che l’antisemitismo è anche strumento di potere nelle situazioni disperate. Oggi, nel conflitto israelo-palestinese, dove è stato utilizzato dalle formazioni oltranziste e dal terrorismo, che hanno scalzato via l’Autorità nazionale palestinese.
Ripeto, l’antisemitismo può combinarsi con un sentimento di massa e allora il potere non ha più remore e può arrivare anche alle atrocità estreme, come è stata la pianificazione dell’olocausto. Come oggi l’antisemitismo è utilizzato da Hamas per dare legittimazione popolare al suo agire. Una constatazione ovvia, ma sconcerta che non si avanzi – dalla comunità internazionale – un vero e giusto disegno per uscire dalla nuova esplosione della crisi dopo le atrocità di Hamas. Ma senza di questo disegno – di pace nella giustizia – è totalmente impossibile frenare il ritorno dell’antisemitismo.
Cosa fare allora?
Abbandonare la strada della vendetta e definire un disegno per la pace, accettando anche condizioni che possono non piacere nell’immediato tanto all’una quanto all’altra delle parti in conflitto. Eppure, se il disegno è giusto e razionale, occorre reperire le condizioni per farlo avanzare nel sistema delle relazioni internazionali. All’interno di questo disegno deve trovarsi un patto che associ entrambe le parti al rigetto dell’antisemitismo, smascherandone la struttura, denunciando le complicità che raccoglie.
Vanno denunciate le responsabilità di opinion leader, di importanti intellettuali, di quanti rivestono responsabilità politiche quando strumentalizzano, per obiettivi prosaici o di visibilità, tanto l’antisemitismo quanto l’islamofobia: due fattori che si rafforzano reciprocamente. È una situazione, quella attuale, dove tutta la discussione politica, sociale, culturale sta mostrando una spaventosa regressione. Colpire gli ospedali facendo strage di bambini non sarebbe tanto facile, come pure entrare nei kibbutz e far strage come il 7 ottobre. Viene meno la censura corale della comunità internazionale e si violano persino i protocolli dell’uso della violenza in guerra. Abrogata nei fatti la Convenzione di Ginevra, non si fermano le repliche delle atrocità. L’unica voce autorevole che si è alzata per fermare la guerra viene dal Papa e dalla Chiesa, perché il cristianesimo è anche libertà dall’ottusità nei conflitti e porta in risalto l’essenziale dell’umanità.
Lei prima parlava di perdono: ma è possibile anche in situazioni drammatiche come questa?
Sì,
per interrompere il circolo vizioso della guerra bisogna introdurre dall’esterno una variabile, che è costituita dal dialogo, dalla riconciliazione e dal perdono.
È quello che è avvenuto in Sudafrica, dove il terrorismo c’è stato fino alla fine dell’apartheid: l’African National Congress praticava la lotta armata o il terrorismo, ricevendo l’investitura della maggioranza nera che era massacrata dalla minoranza bianca razzista, colonialista. Quando il contesto è cambiato, grazie alla genialità di Desmond Tutu, Nelson Mandela e Frederick De Klerk, c’è stata la lungimiranza di non regolare i conti con le vendette. Ed è stato tradotto in politica – non sembri irriguardoso dire questo – un principio cristiano: il perdono e la riconciliazione. La giustizia non è stata concepita come “retributiva”, che doveva risarcire in proporzioni simmetriche le vittime. Ma come riparativa, riconciliativa. Questo caso di successo, forse, nei terribili giorni attuali, andrebbe ricordato e messo in risalto. Ovviamente, la contropartita della riconciliazione e del perdono è la verità.