Ci ha donato la morte “sorella”. Ecco la grande lezione di san Francesco
L’eco del Cantico , con la potenza del suo inno a «sora morte corporale» travalica i secoli fino ai nostri giorni, alla nostra stessa vita, donandoci parole che pesano ancor di più su una società come la nostra, impegnata con ogni mezzo possibile a “mascherare” e esorcizzare quella morte che non sappiamo più accogliere come punto d’arrivo e culmine del ciclo naturale della vita.
Si sa che nelle ultime battute di un libro è rinchiuso il significato di un intero racconto.
È con la fine, che tutto si disvela. Nelle parabole, ad esempio, nel finale c’è il vero messaggio. La fine è spiegazione e illuminazione.
Tale premessa è utile per avvicinarci a uno dei momenti significativi che si celebrerà ad Assisi e nel resto del mondo, quando sul fare della sera tra il 3 e 4 ottobre, col Te Deum vespertino si celebrerà il transito di Francesco, patrono d’Italia.
Dovendo scegliere un momento che sintetizzi l’esistenza del poverello d’Assisi, non esito a citare il suo dialogo con la morte.
Di quelle parole, la frase più potente, poetica e terrificante, è contenuta nel celebre Cantico: nel «sora nostra morte corporale» la cui versione manoscritta – come ci ricordano gli studiosi – deve essere stata dettata a qualche frate da Francesco morente, con la precisa intenzione che questo venisse cantato (ecco perché Cantico) seguendo le note musicali affiancate al testo.
Quel tremendo e dolce versetto che dice: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare», non può e non deve lasciarci indifferenti.
Quell’eco travalica i secoli fino ai nostri giorni, alla nostra stessa vita. Impossibile quindi, per credenti e non credenti, restare impassibili davanti a parole che, nella loro laconicità, concentrano una biblioteca intera. Nelle scarne parole del frate c’è un bello-bellezza rivolto a “sorella morte”. Un fatto incomprensibile allora come oggi.
Mai prima di lui, e dopo di lui, uomo osò tanto.
Neppure Cristo sulla croce, ebbe da chiamare “sora” la morte che stava per sposare. Francesco “alter Christus” si comporta da vero maratoneta dell’umano, quando nello “strappo” finale prima del traguardo dell’esistenza, sfodera il suo capolavoro. L’ultimo slancio vitale in punto di morte si svela con un gesto di tenerezza terrena. Da figlio verso la madre. Semplice e disarmante, al punto che quegli ultimi istanti sono capaci di illuminare l’intera sua vita.
Francesco dona al tempo l’espressione più celeste e terrena che si possa rivolgere alla “signora con la falce”.
Su questo si sono spesi fiumi d’inchiostro e montagne di parole, ma solo la semplicità di quel favellare spontaneo, seguito da piccoli gesti, ne manifesta la potenza.
Parole che otto secoli dopo pesano ancor di più su una società come la nostra, impegnata con ogni mezzo a “mascherare” lei, la morte. Lei che rimane fedele a se stessa, noi invece sempre impegnati a mutare il pensiero su di essa.
Nel recente “Cortile di Francesco” svoltosi ad Assisi alla metà di settembre, uno dei massimi appuntamenti culturali d’Italia promosso dai frati conventuali del Sacro convento, in uno dei tanti e pregevoli interventi che si sono alternati in quella straordinaria Babele di cultura, il medievalista Franco Cardini affiancato da Merlo e Accrocca, tra i maggiori studiosi del francescanesimo, parlando di Francesco ha proposto un felice confronto storico tra il santo di Assisi e il Buddha indiano: se per i buddisti la morte è un fenomeno naturale come la nascita, solo Francesco, di tutta la galassia dei santi cristiani, ha sfidato la liturgia funebre.
Con quel suo modo di morire, nulla può dirsi più come prima. Francesco consacra e al tempo stesso “dissacra” sora morte.
Nell’incipienza del trapasso terreno, siamo alla Porziuncola la sera del 3 ottobre di otto secoli fa, esprime il desiderio di gustare per l’ultima volta «i soliti dolcetti», probabilmente mostaccioli di mosto e mandorle, chiedendoli a Jacopa dei Settesoli, nobile romana molto vicina al santo che per sua espressa volontà viola la clausura, cioè lo spazio recluso per i fratres, annientando così un’altra barriera umana con l’appellativo coniato dalle labbra del morente Francesco di “frate Jacopa”.
Chiede poi di ascoltare dalla voce dei frati il Cantico da lui musicato e così facendo si rivolge alla morte chiedendogli di essergli “sorora”, cioè sorella. Quel sole che allora stava tramontando sulla valle spoletana come nella sua vita, gli strapperà l’ultimo sorriso.
Non fu uno sbeffeggio da «giullare o pazzo di Dio» come si definiva, ma una impensabile fraternità con la morte stessa.
Ecco perché al di là di tante elucubrazioni su Francesco, oggi tornato sulle labbra di molti, la sua grandezza è di aver guardato la vita dal basso e la morte dall’alto.
E se è vero che ogni morte resta diversa, inclusa la nostra, celebrare la morte del nostro patrono induce a un’osmosi francescana, laica o credente che sia, che ci sprona a vivere al meglio il tempo che ci resta.