V come vergogna. Può diventare virtù che spinge a cambiare
Era da circa tre anni che non ci incontravamo. Appena la vidi, le dissi: «Congratulazioni, vedo che aspetti un bambino». Lei, con uno sguardo che non dimenticherò mai, mi rispose: «Non sono incinta!».
Per la vergogna avrei voluto nascondermi sotto l’asfalto. Sentivo di aver perso tutta la sua stima. Avevo tradito quella regola non scritta che ci insegna a non far presente a una donna che è così tanto ingrassata da sembrare incinta. Da quel giorno non mi permetto più di chiedere a una donna se è incinta, nemmeno se è al nono mese.
La vergogna è un’emozione che, come scrive nel suo omonimo libro Gabriella Turnaturi, ha subito negli anni una profonda metamorfosi. Se in passato, in forza anche di certa educazione, ci si vergognava a mostrare in pubblico le proprie nudità, i propri sentimenti, quelle cose che abitano la nostra intimità e che condividiamo solo con poche persone, oggi siamo andati all’opposto: non ci si vergogna più di nulla. Tutto è diventato di dominio pubblico e nessuno si fa problemi a denudarsi davanti a milioni di persone.
Giustamente, la sociologa di Bologna afferma che «quando la sfera pubblica diviene un confessionale accessibile e visibile a tutti, quando confessarsi pubblicamente viene incoraggiato e approvato, commercializzato, e quando diviene l’unica via di accesso non più a se stessi, ma all’altro che vuole vederci spavaldi e senza vergogna, la vergogna si vergogna e va a nascondersi».
L’impressione è che anche in politica la vergogna si vergogna e va a nascondersi. Eppure, un recupero di questa emozione aiuterebbe il politico a rimanere con i piedi per terra, a essere più umile e attento all’altro. Infatti, la vergogna ci segnala che non siamo soli al mondo: l’altro, la collettività, i cittadini ci sono, esistono, non solo quando li vediamo noi. Non provare mai vergogna, oltre che qualcosa di patologico, è un sintomo preoccupante perché segnala una chiusura nei confronti dell’altro, indica i confini tra me e la sua intimità, superarli significa ferire l’altrui sensibilità.
Quando si perde il senso comune del vivere insieme, della società, quando non si ha tempo per contemplare “il volto dell’altro” (Levinas), è naturale che si attenui il senso della vergogna, aumentando così le trasgressioni, fino a farle diventare normali. Alcuni anni fa, per esempio, un politico si lamentava perché non riusciva a vivere con 11 mila euro al mese. Non discutiamo sul compenso, ma sulla mancanza di pudore nel rilasciare un’intervista in cui è riuscito, senza nessuna vergogna, a umiliare la sensibilità di milioni di persone che vivono con meno di 11 mila euro all’anno. L’arroganza e l’orgoglio hanno soffocato quella vergogna che lo avrebbe preservato dal superare il limite della decenza.
Anche il cittadino, però, deve ritrovare questa emozione, che insieme all’indignazione, lo potrebbe aiutare ad acquisire un sano orgoglio, che è la molla per il riscatto. Sentire vergogna per l’ingiustizia fa aumentare il senso di partecipazione, conducendo il cittadino a non temere di denunciare i soprusi di chi lo governa. Nel momento in cui è assunta da un intero popolo, la vergogna diventa una virtù civile in grado di spingere ad un vero cambiamento sociale, come ebbe a dire Karl Marx: «Non è per la vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un’intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile ad un leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso».