Al passo con le richieste di Dio che evolvono... con gli uomini
Chiese e chiose. Il cammino storico della Chiesa chiede cambiamenti, una nuova considerazione della realtà o una rilettura del Vangelo, percorsi “altri”...
Messa festiva anticipata in una parrocchia di città. Iniziamo la distribuzione dell’eucaristia e, con la coda dell’occhio, scorgo nel primo banco una signora anziana che fa resistenze all’accompagnatrice che l’invita a fare la comunione. Visto che la signora resta ferma sul no, conclusa la fila dei fedeli, mi avvicino a lei e le chiedo se vuole la comunione. «No, non posso farla» è la risposta. «Ma, signora – dico io – fa bene comunicarsi». E lei: «Si prende lei la responsabilità se vado all’inferno?». Amabilmente sorridendo, insisto: «Signora, la comunione è per andare in paradiso, non all’inferno». Dopo un veloce segno di croce sulla fronte, accetta l’ostia. A fine messa l’avvicino e mi spiega che da tempo, per ragioni di salute, non partecipava alla messa, che è stata abituata in un certo modo… tutto come previsto. Qualche battuta di dialogo e incoraggiamento, la tranquillizzo e alla fine mi ringrazia per aver capito la sua situazione.
La prima riflessione, istintiva: educazione rigida, quanti guai! Quante difficoltà per le persone che sono state cresciute nella fede e pratica cristiana in modo schematico e “iper-dogmatico”, come se tutto – dai dettami del catechismo di Pio X e dei concili ecumenici alle preferenze del parroco – fosse sotto l’ombrello del “si deve! O così o si è fuori… o tutto o niente”. Ai nostri giorni il rischio è senz’altro contrario: ma questa è un’altra storia.
Più in profondità, non si può negare che spesso i credenti tendono a considerare definitiva e immutabile quella comprensione del cristianesimo e forma di Chiesa in cui sono cresciuti e che ha dato sicurezze per tanti anni: ci si identifica con un’esperienza cristiana molto concreta e specifica, fatta di un certo linguaggio, di determinate strutture (“la mia chiesa”, “il mio patronato”, “la mia scuola” ecc.), di abituali forme di devozione. E si vorrebbe quindi che la Chiesa non procedesse oltre, non offrisse interpretazioni o linguaggi diversi, non inventasse alcunché di nuovo: comunione in mano, accoglienza dei divorziati, unità pastorali, parole del Padre nostro... oh, no!
Analogamente, ai pastori può capitare di fossilizzarsi su “quel” modo di stare tra la gente, su “quello” schema pastorale, anche se non funziona più da tempo. Sta qui il nocciolo di tante difficoltà che incontra la predicazione di papa Francesco, venuto sì da un mondo lontano ma soprattutto desideroso di scrostare “depositi” inutili, se non pericolosi, per l’annuncio del Vangelo.
Certo, davanti ai cambiamenti va compresa la reazione delle persone che vi vedono una sorta di svalutazione di quanto hanno creduto e vissuto per anni.
Bisogna (far) comprendere che, nel cammino storico della Chiesa, a ogni tappa ne segue un’altra, si entra in una situazione nuova in quanto le richieste di Dio – che parla attraverso i segni dei tempi, le vicende e le cronache degli uomini – evolvono: e ogni passaggio richiede un cambiamento, una nuova considerazione della realtà o una rilettura del vangelo, percorsi “altri”.
L’attenzione agli anziani è fatta anche di questa comprensione, pazienza e vicinanza, non di giudizi affrettati o sprezzanti, ma non si può restare fermi al passato, a tappe e mondi ormai superati, a parole che hanno cambiato significato. Anche perché è impossibile stabilire quale sia il punto-limite: a quale papa ci fermiamo? Al tempo della giovane età di chi?
A margine, ma non del tutto, mi piace evidenziare che la gentilezza fa miracoli, anche nei confronti di persone che la pensano in modo diverso e al momento “non si fidano”. Uno stile, anche pastorale, di relazioni vere e fraterne, dunque, secondo l’invito alla tenerezza che il Natale ci ha appena riproposto e l’Evangelii gaudium spiega bene al n° 288.
E per tornare al caso specifico, è utile tenere ben saldo – e ripeterci di frequente – che la comunione fa bene per la vita (cristiana), sempre: se crediamo che la comunione è quello che è, se verso Dio c’è un amore vero (che comprende anche la contrizione, il “dolore perfetto”), fa bene fare la comunione. Non per abitudine o semplice tradizione, ma per “fare comunione”: cioè crescere nell’amore, vivere la carità, fare storia insieme come popolo di Dio.