Giù le mani dalla GMG. Non è una panacea, ma è un bell’evento che rivela i miracoli nascosti della quotidianità
Da giornalista cattolico di cose cattoliche (una classificazione che ho inventato io ma che descrive bene la categoria), uno dei meriti straordinari di vivere una GMG è che ti costringe a smettere di guardare i social.
Certo, la rete prende ovunque, certo, è bello poter documentare, raccontare e connettere l’entusiasmo e la fede di questi ragazzi. Ma in questo caso si sta anche un po’ lontani dalle polemiche artificiali che certi algoritmi rilanciano ossessivamente.
Nelle bacheche social dei giornalisti cattolici di cose cattoliche (trademark), impazzano le solite polemiche sulla GMG da parte di chi non ci viene oppure ci è venuto una volta soltanto una decina di anni fa per il solo gusto di raccogliere aneddoti per parlarne male successivamente.
Dicono che la GMG è un evento chiuso. Abbiamo visto tutte le bandiere del mondo, paesi europei e paesi distanti, paesi ricchi e paesi poverissimi. Abbiamo visto le bandiere dei college più tradizionalisti americani e quelle dei movimenti ecologisti e pacifisti cattolici, ma anche le bandiere arcobaleno dei cristiani omosessuali. C’è davvero spazio per tutti, segno plastico che l’amore di Cristo è per tutti.
Dicono che la GMG è un evento inutile, perché non ha riempito i seminari, non ha riempito le chiese la domenica, non ha magicamente riportato le nostre nazioni in piena epoca della cristianità. Sarebbe come accusare un buon ristorante (che apre una volta ogni tre o quattro anni, tra l’altro), di non fare nulla contro la fame del mondo. Nell’epoca della globalizzazione culturale e del turismo economico di massa, la GMG è un’esperienza di pochi giorni per respirare il fatto che la Chiesa cattolica è davvero universale. Ma tranne qualche colpo di fulmine estivo, destinato a spegnersi a settembre, nulla di davvero solido può essere costruito in pochi giorni.
Nel torto, forse, chi ha voluto vedere nell’eccezionalità un miracolo capace di correggere un’ordinarietà percepita come ormai irriformabile.
E forse a fare torto alle GMG sono state certe descrizioni – mea culpa, mea maxima culpa – che ne hanno esaltato i pregi senza contestualizzarli.
Godiamoci la GMG della generazione della pandemia. Gustiamoci il miracolo di una fede sincera e gioiosa di chi è rimasto chiuso in casa due anni, costretto a fare lezione su Zoom e con sempre maggiori pesi e incertezze per un futuro nebuloso verso il quale non ha alcuna colpa. È una piccola cartina tornasole di miracoli ben più grandi che continuano, giorno per giorno, ben nascosti e poco raccontati nelle sale delle nostre parrocchie, nelle nostre famiglie, nelle nostre città. Segno che Cristo, insomma, parla anche alla generazione Z.