Ue: i totem abbattuti nell’anno del Covid. Nuovi orizzonti per l’integrazione comunitaria
Il 2020 ha portato con sé sfide inedite, a partire dalla pandemia, la quale ha innescato una crisi economica e sociale inimmaginabile. Eppure le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, assieme ai 27 governi dei Paesi membri, hanno trovato - non senza difficoltà - coesione e capacità d'innovazione politica e istituzionale in grado di imbastire una risposta comune. Si aprono ora ulteriori opportunità per il processo d'integrazione. In attesa della Conferenza sul futuro dell'Europa...
Se dovessi indicare un protagonista dell’anno che si conclude, non avrei dubbi: l’Europa, anzi per essere più precisi l’Unione europea e le sue istituzioni: Parlamento, Consiglio e Commissione.
Difficile trovare un esempio così denso e forte di decisioni e iniziative da parte di un organismo che conta 27 Stati membri e che deve agire tra i condizionamenti imposti dai Trattati, gli orientamenti mutevoli dei Governi, delle classi dirigenti e, aggiungiamo pure, delle opinioni pubbliche.
Del resto già Robert Schuman, nella sua Dichiarazione del 9 maggio 1950 anticipava che la nascente comunità avrebbe agito attraverso misure e decisioni che avrebbero creato una “solidarietà di fatto”. È quanto è accaduto quest’anno.
Stavolta i critici dell’Europa, che ci sono sempre stati – e ci sono tuttora – faranno davvero fatica a negare, in questo straordinario 2020 (annus horribilis!) la determinazione politica e la solidità propositiva che stanno permettendo di fronteggiare la pandemia, e con essa la più grave crisi del XXI secolo.
Quando a febbraio tutti i Paesi si sono trovati ad approntare un piano di reazione adeguato al Covid-19, l’esistenza di alcuni limiti era scontata. Si pensi, in tema di salute pubblica, all’assenza di una base giuridica nei Trattati in materia di sanità, alla quale si è sopperito, con una buona dose di volontarismo, con le riunioni dei ministri competenti, lo scambio di informazioni e buone pratiche.
Tuttavia, le decisioni assunte dalle istituzioni europee, hanno dimostrato una capacità sorprendente.
A partire dalla sospensione del Patto di stabilità e crescita. Un Patto che, dalla crisi finanziaria del 2008, era diventato il “mantra” dell’austerità. Restituire agli Stati membri la possibilità di adottare misure urgenti per fronteggiare la crisi della pandemia “a debito”, senza la preoccupazione di sforare dai cosiddetti “margini di flessibilità” è stata una potente boccata d’ossigeno.
È seguito il via libera agli aiuti di Stato per salvare imprese e aziende destinate alla chiusura. C’è stato poi il varo di Sure, un sostegno ingente (100 miliardi), a sostegno del ricorso alla cassa integrazione a scala europea, finanziato da un primo embrione di “debito pubblico” europeo. Altre decisioni hanno riguardato il ricorso a strumenti finanziari la cui potenza di fuoco corrispondesse ai livelli impressionanti dell’impatto della pandemia: acquisti consistenti di debito pubblico da parte della Banca centrale europea (Bce); attivazione senza condizionalità di linee di finanziamento, per spese in interventi diretti e indiretti nel settore sanitario dal Fondo salva-Stati (Mes); potenziamento delle risorse della Banca europea degli investimenti (Bei).
La vera svolta storica è arrivata, però, con il Next Generation Eu, deciso nel Consiglio europeo del 21 luglio.
Uno strumento vigoroso per il suo impatto finanziario, garantito da un impegno comune europeo, coordinato con il Quadro finanziario pluriennale di bilancio 2021-2027 dell’Ue (1.085 miliardi). Con il varo di nuove risorse proprie la Commissione europea potrà reperire sui mercati sino a 750 miliardi di euro. Facendo ricorso a un “debito comune”. Un altro totem abbattuto.
E a nulla è valso il no dei sovranisti polacchi e ungheresi che volevano esercitare un diritto di veto per ritorsione rispetto alla decisione, altrettanto coraggiosa e innovativa, voluta in primo luogo dal Parlamento europeo, di introdurre una condizionalità nell’accesso ai Fondi sulla base del rispetto dello Stato di diritto e della democrazia.
Sappiamo che le decisioni in materia di fiscalità, politica estera e difesa sono state finora esclusivamente concentrate negli Stati membri. La questione che si è posta, però, di fronte a questa crisi, non è tanto se fosse possibile recuperare sovranità in ambito nazionale, quanto trovare in una più ampia sovranità europea le leve per un’azione all’altezza delle sfide. Come affermò Emmanuel Macron, nel discorso alla Sorbona del 2017: occorre una “rifondazione di un’Europa sovrana, unita e democratica”.
Anche per queste ragioni una crisi di forte impatto mondiale, a ben vedere, non poteva non incidere sul sistema delle istituzioni europee, producendo decisioni che si fanno costituzione materiale.
Questo confronto, che deve tuttora fare i conti con la persistente spinta intergovernativa, ha registrato una svolta significativa a favore del processo d’integrazione europea.
Finalmente si può cercare di rovesciare il paradigma della narrativa pubblica sulla complessità dell’Unione europea (che nel frattempo ha dovuto condurre complessi negoziati con Londra per il Brexit). La metafora ricorrente secondo cui Bruxelles “decide”, che “l’Europa chiede di fare” o impone di “non fare questo”, non solo non corrisponde a verità ma oggi risulta chiara la strada di un più alto livello d’integrazione. C’è un’energia vitale, nel complesso meccanismo delle istituzioni europee che ha consentito di rimettere in moto questo processo. Ora è più chiaro che il rafforzamento dell’Unione europea rimane una scelta ineludibile.
Questa, e non meno di questa, è la posta in gioco del prossimo futuro se si vogliono affrontare le emergenze del cambiamento climatico, delle migrazioni, dei conflitti aperti e latenti in aree vicine. E ancora, della rivoluzione digitale e di squilibri sociali sempre più grandi, dell’economia e della questione fiscale, della sicurezza e del ruolo dell’Unione nel mondo.Si può guardare con questo spirito alla prossima Conferenza sul futuro dell’Europa, che sarà lanciata nelle prossime settimane con una dichiarazione congiunta di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione?Muoversi lungo linee tradizionali di negoziato, potrebbe non bastare. Ci vogliono percorsi più radicali, che consentano di passare dall’aggiornamento di regole e competenze esistenti a profonde riforme.
Tanto più questo percorso si legherà, come sembra essere previsto, a una iniziativa che parta dal basso, capace di coinvolgere i cittadini, i portatori d’interesse, le autorità locali e regionali, maggiori saranno le possibilità di riuscita.Bruno Marasà*
* Bruno Marasà è stato per molti anni funzionario del Parlamento europeo, specialista di politica estera e della comunicazione