Quando i migranti eravamo noi: "l'anti-italianità" della Svizzera che deve molto agli "estranei"
Il tema è al centro di una ricerca curata dal Centro Studi Idos per la rivista “Dialoghi Mediterranei”, in vista della sessione europea del Cgie, indetta a Basilea dal 28 al 30 ottobre
Sono circa 5 milioni gli italiani che dalla fine dell’Ottocento a oggi si sono trasferiti in Svizzera. Un flusso di persone particolarmente elevato dopo la Seconda guerra mondiale: nel decennio 1946-55 erano il 26% degli espatri totali e quasi il 50% degli espatri in Europa; nel decennio successivo dal 1956-1965 circa un terzo sugli espatri totali e il 40% sugli espatri continentali. Poi il ruolo di primo Paese di arrivo degli italiani passò alla Germania, pur continuando a rimanere la Svizzera una delle principali destinazioni della nuova emigrazione. A ricordarlo è l’ultima di una serie di ricerche curate dal Centro Studi Idos per la rivista “Dialoghi Mediterranei” e finalizzate a riflettere sulla “italianità all’estero”, in vista della sessione europea del Cgie, indetta a Basilea dal 28 al 30 ottobre
In particolare, l’analisi si concentra su un “dilemma di fondo”: “da un lato, lo straordinario benessere svizzero non sarebbe stato possibile senza una elevata presenza straniera; dall’altro, questa presenza è vista socialmente come un disturbo da molti autoctoni” si legge nel report. In effetti fino al 1964, anno della firma del secondo accordo bilaterale sul collocamento della manodopera, la situazione degli italiani fu segnata da una estrema precarietà e da un cumulo di restrizioni. Gli italiani erano considerati non solo stranieri ma anche “estranei” per effetto di una storica “anti-italianità”, già evidenziata, fin dall’inizio dei flussi, dalle rivolte popolari contro gli italiani, scoppiate a Berna e a Zurigo (rispettivamente nel 1893 e nel 1896).
L’accordo del 1964 costituì la base per dare inizio all’inserimento stabile degli italiani, facilitando l’arrivo dei loro familiari. Ma il cammino fu tutt’altro che facile e fu anche messo in forse dal referendum promosso da Schwarzennbach nel 1970, che esprimeva la ricorrente paura degli svizzeri di essere sopraffatti dagli stranieri (il cosiddetto “inforestieramento”). Questa paura si è manifestata ancora una volta nel 2014, anno in cui un altro referendum (questa volta convalidato dai votanti) intese ridurre rigidamente l’afflusso degli immigrati.
Nel tormentato periodo del dopoguerra vi furono le partenze irregolari e le permanenze non autorizzate degli italiani, la tragedia dei figli nascosti in casa per paura che fossero denunciati alla polizia o parcheggiati presso qualche istituto al confine, l’inserimento nei lavori più umili e il connesso disprezzo per questa manovalanza dalle tradizioni diverse e le immaginabili umiliazioni e deprivazioni che conseguirono nella vita quotidiana. Non mancò l’accanimento della polizia con i suoi controlli, che portò ad aprire migliaia di fascicoli intestati agli italiani perché spesso ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico, specialmente se militanti politici e sindacali. In tale contesto fu di grande aiuto l’associazionismo: dalle Missioni cattoliche italiane alle Acli, dalle Colonie libere ai Patronati e ad altre forme associative.
La condizione degli italiani era destinata a migliorare ulteriormente perché la tutela, assicurata dalla contrattazione bilaterale (avviata subito dopo il conflitto mondiale da Eugenio Reale (arrivato come esule e poi nominato ambasciatore a Berna), fu completata dall’adesione della Svizzera alla normativa Ue sulla libera circolazione dei lavoratori. Una normativa che, entrata in vigore alla fine degli anni ’60, poi successivamente perfezionata, ha restituito dignità anche ai lavoratori italiani.
L’attuale collettività italiana in Svizzera conta 660 mila membri, dei quali circa un terzo possiede la doppia cittadinanza. Vanno menzionati anche i 60 mila frontalieri, che con il loro lavoro sostengono l’economia del Canton Ticino e in parte del Canton Grigioni. La ricerca promossa da Idos fa anche il punto sulla politica migratoria svizzera, nata sotto il segno della precarietà con la prima legge sull’immigrazione degli anni ’30 e rimasta tale a lungo anche nel dopoguerra. La prima deroga a tale rigida impostazione fu proprio l’accordo italo-svizzero del 1964. Anche dopo le aperture legislative a una presenza straniera stabile, non sfuggì ai politici la radicale divisione dei cittadini svizzeri su questo tema ed ebbe così inizio la strategia della gradualità.
Rispetto a Paesi come gli Stati Uniti, quelli latinoamericani o, in Europa, la Francia, i percorsi di integrazione in Svizzera si sono dischiusi tardivamente, dopo gli anni ’60. Secondo gli autori della ricerca, sarà il futuro a mostrare in quale misura la presenza italiana, ampliando gli spazi del suo protagonismo, riuscirà a fondersi con la peculiarità svizzera. Michele Schiavone evidenzia come questo processo sia già in atto, poiché gli italiani sono sempre più presenti in campo parlamentare (federale e cantonale), amministrativo, professionale e imprenditoriale, il che lascia ben sperare.
La ricerca è dedicata ai nostri emigrati in Svizzera è firmata da Franco Pittau e Giuseppe Bea, già responsabile degli uffici all’estero del Patronato della CNA, e la ricercatrice Alessia Montuori, attualmente operatrice sociale in Svizzera e già segretaria dell’Associazione “Senza Confine”, mentre le conclusioni sono di Michele Schiavone, che, oltre a essere da tempo residente in Svizzera, è segretario del Consiglio generale degli italiani all’estero. Lo studio sarà pubblicato online il 1° novembre.